L’attuazione e l’integrazione della riforma del Titolo V della Costituzione – Resoconto Convegno

26.11.2002

L’attuazione e l’integrazione della riforma del Titolo V della Costituzione

Roma – Palazzo S. Macuto
Sala del Refettorio
28 Ottobre 2002


di Luca Castelli ed Elena Griglio


Dopo una breve introduzione del prof. Capotosti, che porta ai presenti i saluti del Presidente Ruperto e degli altri colleghi della Corte Costituzionale e sottolinea come la Corte stessa sia in attesa dei contributi del legislatore e della dottrina per poter dare una prima attuazione alla riforma, prende la parola il prof. Guarino il quale evidenzia come tra le questioni ancora aperte nell’attuazione del Titolo V, ce ne sia una assolutamente prioritaria, perché condiziona tutte le altre, relativa al sistema tributario e finanziario. La caratteristica di questa riforma è che le sue effettive potenzialità non sono state colte nella loro reale portata neppure dai suoi proponenti; per di più l’approvazione da parte del corpo elettorale ha dato vita a delle norma costituzionali rafforzate, nel senso che appare corretta la tesi per cui quando c’è stato un referendum il legislatore ordinario, prima che siano sopravvenute condizioni oggettive, che possano addursi a giustificazione della modificazione delle norme medesime, non possa modificare tali norme. Nell’affrontare il problema interpretativo in un’ottica di sistema, non è possibile prescindere da quelli che sono i condizionamenti comunitari. Uno dei principi fondamentali del diritto comunitario è che la Comunità non concede aiuti agli Stati, se non nei rari casi in cui ciò è previsto, per cui ciascuno Stato deve provvedere da solo, peraltro rispettando parametri che sono molto restrittivi, e quindi con margini di movimento davvero ristretti. In questo contesto è inoltre importante rilevare come i Trattati capovolgano l’etica dello sviluppo, che non è più quella del maggiore sviluppo, ma quella dello sviluppo sostenibile. Ciò significa che ogni Stato deve ispirarsi al principio della migliore combinazione dei fattori produttivi, attraverso una valorizzazione degli stessi che determini un equilibrio che consenta di ottenere il massimo dello sviluppo sostenibile nell’ambito del rispetto dei parametri. Sotto l’aspetto tributario quindi da un lato gli Stati devono rispettare i vincoli, dall’altro non possono calcare troppo la mano per evitare la fuga dei fattori produttivi. In questo quadro di compatibilità, è evidente che a livello substatale non possa che valere l’applicazione degli stessi principi, altrimenti ogni livello inferiore cercherà di trarre il massimo dalle casse dello Stato. Quando la rivendicazione di risorse da parte dei livelli inferiori si svolge in modo disaggregato e al di fuori di un contesto di equilibrio, le conseguenze sono quelle di creare diseconomie spaventose e problemi di funzionalità. Se si tiene presente questa cornice, il problema interpretativo delle norme in materia fiscale deve essere risolto nel coordinamento con questi principi. Quando si vanno a leggere le norme del nuovo Titolo V, scritte con grande maestria, ci si rende conto che esse lasciano un buco, che è rappresentato dalla materia imponibile: si tratta cioè di stabilire a chi appartiene la materia imponibile, che è l’oggetto sul quale si esercita il potere impositivo. Per individuare l’appartenenza della materia imponibile, il principio fondamentale è quello per cui Comuni, Province Città metropolitane e Regioni hanno autonomia finanziaria di entrata e di spesa e hanno risorse autonome: tali risorse servono per lo svolgimento delle funzioni, per cui se gli enti territoriali devono avere assoluta autonomia nel determinare quanto deve essere esercizio del potere in ciascuna delle funzioni fondamentali, è necessario che ciascun ente possa liberamente determinare quali sono le quote delle risorse che sono nel territorio e che vengono destinate all’esercizio delle funzioni fondamentali. Dunque il principio è che ognuno esercita le funzioni che la Costituzione gli ha attribuito: le risorse vanno a quelli che hanno le funzioni. I compiti dello Stato sono determinati e facilmente definibili, peraltro con un margine di elasticità nel quale interviene il potere di coordinamento che può prevedere anche degli aggiornamenti periodici: stabilite le risorse necessarie per lo svolgimento delle funzioni statali, tutto il resto va alle regioni e agli enti locali. E’ la legge dello Stato che forma oggetto di coordinamento, ma nei rapporti tra i vari enti autonomi, senza cioè che lo Stato sia parte in causa: sempre con legge lo Stato può peraltro fare altre cose: può prevedere un fondo perequativo, determinare i livelli essenziali delle prestazioni, stabilire le funzioni fondamentali dei Comuni Province Città metropolitane. Quindi c’è un sistema tributario generale e poi un sistema tributario dello Stato, al quale lo Stato provvede solo per far fronte allo svolgimento delle proprie funzioni, mentre per tutto il resto deve provvedere la legge di coordinamento. Gli equilibri della sostenibilità sono diversi da Regione a Regione: imporre a tutte le Regioni di avere lo stesso ritmo di sviluppo è stato il grosso errore fatto a partire dall’unità d’Italia. Ogni Regione deve avere la possibilità di realizzare in autonomia il proprio equilibrio sostenibile: ciò avrebbe dovuto implicare una indagine pregiudiziale, di cui esiste il precedente del volume di Nitti degli anni ’20, per verificare se ancora oggi, come già quell’indagine dimostrava allora, i trasferimenti dal sud al centro sono superiori di quelli dal centro al sud.

Il prof. Cassese prosegue nel solco del discorso di come rendere applicabili le norme del Titolo V che contengono degli interessanti principi, dei buoni propositi, ma anche delle cose del tutto inapplicabili e che quindi richiedono all’interprete uno sforzo ulteriore. In premessa sono necessarie due avvertenze: quella di non attuare alla cieca queste nuove disposizioni costituzionali e di non ricostruire un grande Stato ottocentesco a livello regionale, provinciale e comunale. Per sviluppare il primo ordine di riflessioni, Cassese parte da alcuni esempi concreti: il Governo ha emanato il 4 settembre 2002 un d. lgs. concernente ‘Procedure semplificate per realizzare le infrastrutture strategiche in materia di telecomunicazioni.’ Il 21 ottobre 2002 la Giunta dell’Emilia Romagna ha approvato una proposta di legge in cui si dispone che alle infrastrutture di telecomunicazioni, definite strategiche dal d. lgs. citato, si applichino le norme regionali dettate nel 2000 dalla legge n. 30 concernente ‘Norme per la tutela della salute e la salvaguardia dell’ambiente dall’inquinamento elettromagnetico.’ Tutto ciò perché, come si legge nella relazione alla delibera di Giunta, vi è una incertezza del quadro normativo, ma la Regione è convinta di dover esercitare la competenza in materia e questa iniziativa legislativa regionale può servire a chiarire che questa competenza è appunto della Regione e non dello Stato. Altro esempio significativo è quello della Regione Toscana che propone di trasferire agli enti locali il museo nazionale del Bargello, il museo delle Cappelle medicee, le ville della Corona e il giardino di Boboli. Questi due orientamenti sono rappresentativi della convinzione che esiste un’urbanistica e un governo del territorio che sono di competenza legislativa concorrente e su tali materie la Regione deve quindi far sentire la propria voce; ugualmente la tutela dei beni culturali appartiene allo Stato, ma appartiene alla competenza ripartita la valorizzazione, mentre la gestione non si sa dove stia,  e quindi questo è il fondamento costituzionale delle due pretese ora descritte. Tali rivendicazioni regionali si scontrano con dei problemi concreti: il primo è che una rete (di telecomunicazione) è tale in quanto è una rete; se non è una rete, se cioè è sottoposta ad una disciplina concorrente e quindi può essere regolata in modi diversi da autorità pubbliche diverse, finisce per perdere la natura della rete. Il secondo caso si scontra contro la circostanza che il Bargello è la più importante raccolta del paese per la scultura e le arti minori, Boboli è il giardino all’italiana più antico e prezioso d’Europa, le Cappelle medicee sono il sepolcreto monumentale dei granduchi. Tali problemi derivano, dal punto di vista giuridico, dal fatto che in questo braccio di ferro tra Stato e Regioni manca il punto di equilibrio che una volta consisteva nell’interesse nazionale. La soluzione che può servire per non applicare alla cieca queste disposizioni è quella di introdurre anche in Italia il criterio tedesco della natura della cosa, quel criterio cioè in base al quale ogni norma deve essere conforme alla cosa. E’ stato recentemente spiegato in un saggio del maggiore studioso americano di tali questioni che il problema che in California sottostava alla carenza di energia elettrica deriva proprio dal fatto che lì, come in Italia, è stato stabilito per le reti di comunicazione e di trasporto d’energia, che si trattasse di materia di legislazione concorrente. Se è concorrente è un vestito d’Arlecchino, se è tale non è più una rete: questo è il problema della natura della cosa e cioè che la cosa non è più tale. A questo problema è collegato l’altro relativo al peso che tutte queste questioni stanno avendo a livello locale e alla tentazione locale di ricostruire in grande quello che si sta disfacendo al centro: al centro si è avuto un decennio di privatizzazione, mentre le imprese degli enti locali stanno acquisendo nuove partecipazioni e vestendo abiti da grandi imprese pubbliche; al centro si è avuta una politica di liberalizzazione dei servizi pubblici, mentre in sede locale si stabiliscono regole, principi, garanti, autorità di disciplina, doveri e oneri civici; al centro si semplificano le procedure, in periferia si complicano. Sulla maggiore rivista francese di diritto amministrativo c’era un articolo significativamente intitolato ‘La malattia infantile del decentramento.’ Tale malattia è definita ‘gestionite’: ‘dotati di competenze nuove, i poteri locali e regionali sembrano non avere altro obiettivo di far sentire tutto il proprio peso nell’esercizio di queste competenze, affermando prerogative convinti di non avere altra soluzione che di assumersi delle responsabilità per gestirlo. Di qui una malattia infantile che può degenerare in malattia cronica, che è quella di non rendersi conto che il fenomeno burocratico, estirpato progressivamente dalla sfera dello Stato trovi una nuova strada in seno al potere locale.’ Di questa malattia infantile abbiamo tutti i sintomi anche in Italia e va di pari passo con quell’atteggiamento di affronto tra i poteri piuttosto che di collaborazione.

Il prof. Panunzio più che cercare di dare ulteriori contributi all’interpretazione o ricostruzione di aspetti rilevanti della riforma, tenta un sintetico bilancio di ciò che si è fatto e di quello che si doveva fare e non si è fatto in tema di attuazione del Titolo V. Tutti i contributi emersi in dottrina concordano sul fatto che si tratti di una riforma per la quale è assolutamente cruciale il momento dell’attuazione, per molte ragioni: per come è nata, per il fatto che contiene lacune, alcune peraltro consapevoli, come la mancanza di una sede istituzionale di coordinamento e di integrazione politica fra gli enti territoriali e lo Stato, per la mancanza di norme transitorie. Tutto ciò rende per questa riforma il problema dell’attuazione assolutamente fondamentale e questo aspetto veniva rilevato anche nel documento conclusivo dell’indagine conoscitiva svolta dalla Commissione Affari costituzionali del Senato, nonché nell’intesa interistituzionale dello scorso maggio: tutti hanno cioè ritenuto che fosse fondamentale concordare insieme una serie di interventi attuativi. E’ noto tuttavia che non si è fatto molto soprattutto se si considerano quelli che sono gli elementi su cui sono tutti d’accordo perché senza di essi la riforma non può vivere: le leggi di coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario e la costruzione dei meccanismi perequativi; la definizione delle funzioni fondamentali di Comuni, Province, Città metropolitane come richiesto dall’art. 117, comma 2, lett. p, senza di che la riforma dell’amministrazione resta sulla carta;  la determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali; sotto il profilo procedurale, l’assenza di una sede istituzionale idonea a dare rappresentanza agli enti territoriali, resa ancora più accentuata dalla perdurante inattuazione dell’art. 11 l. c. 3/01. Lo scorso 19 settembre il Presidente Pera in un discorso all’Assemblea, pur riconoscendo i limiti dell’integrazione della commissione bicamerale, aveva tuttavia esortato a provvedervi quanto prima, però nelle Linee direttrici per la riforma del regolamento del Senato presentate alla Giunta per il regolamento ad ottobre di questo problema non c’è alcun accenno. I problemi non derivano solo dalle omissioni, ma anche da quello che si è fatto come se non ci fosse stata la riforma del Titolo V e essa non fosse oggi la Costituzione della Repubblica italiana: il riferimento è in particolare a leggi e atti con forza di legge dello Stato che sono intervenuti su varie materie come se fossero stati costruiti prima dell’entrata in vigore della riforma, quali la Finanziaria 2002, la legge Obiettivo (n. 443/01) e relativi  decreti delegati. Su tali leggi si pronuncerà la Corte, ma è quantomeno singolare che su materie di competenza esclusiva o concorrente regionale in questi provvedimenti si autorizzi il Governo a fare regolamenti e questo è un aspetto sintomatico dell’atteggiamento del legislatore nazionale. I problemi ci sono e può essere che debbano risolversi tenendo presente l’interesse nazionale, ma bisogna intendersi perché l’interesse nazionale non è un qualcosa che propriamente esiste in re ipsa, ma viene definito e attribuito ad una cosa da chi ha il potere di attribuirgli questa qualificazione. Il problema è che in queste leggi si attraggono materie alla competenza dello Stato, in virtù di un non nominato ma implicito interesse nazionale, che è evocato ad esempio dall’aggettivo strategico, in virtù di una determinazione che è troppo unilateralmente dello Stato, laddove invece in un sistema come quello che dovrebbe svilupparsi dall’attuazione del Titolo V, queste qualificazioni dovrebbero avvenire in forma concertata, cooperativa. Dunque il problema non si risolve dicendo qual è l’interesse nazionale, o che lo dica lo Stato o che lo dica la Corte Costituzionale, ma vedendo come si arriva a questa qualificazione. Ci sono dei ddl pendenti: il più significativo è il ddl La Loggia che, al di là del titolo molto onnicomprensivo, non contiene una disciplina che affronta tutti i problemi, ne trascura motivatamente molti, come l’attribuzione delle funzioni fondamentali (demandata al ministero dell’interno), i problemi finanziari…Ci sono poi l’A. C. 3123 che adegua la legge La Pergola al nuovo 117, comma 5 e l’ A. S. 1306 (ddl Moratti) che contiene la delega al Governo per la definizione delle norme generali sull’istruzione, c’è infine il ddl costituzionale Bossi sulla devolution (A. S. 1187). In questa vicenda dell’attuazione e dell’integrazione del Titolo V un ruolo molto importante è quello svolto dalla Corte Costituzionale, perché in carenza dei soggetti che per loro funzione istituzionale dovrebbero affrontare e risolvere questi problemi di attuazione del modello costituzionale, inevitabilmente la Corte svolge un ruolo di supplenza e la sua presenza in questa vicenda aumenta al di là di quanto necessario ed auspicabile. L’opera di supplenza della Corte ha degli inconvenienti anche perché i precedenti della giurisprudenza costituzionale in materia regionale non sono felicissimi, in quanto le potenzialità del modello regionale del ’48 non si sono sviluppate appieno anche perché l’orientamento centralistico del Governo e della burocrazia ha trovato soprattutto all’inizio una sponda nella giurisprudenza della Corte. Questo non significa che oggi ci dobbiamo attendere la stessa cosa, però indubbiamente la Corte svolge un ruolo che non è quello suo proprio perché l’attuazione di un modello costituzionale implica scelte politiche che non sono di competenza della Corte, che è tuttavia inevitabilmente costretta a lambire il confine che divide ciò che è scelta politica e ciò che invece è valutazione di costituzionalità delle norme. Quando fa ciò si crea un altro inconveniente, perché quando un problema è risolto dalla Corte con una sentenza che dichiara l’incostituzionalità di una certa soluzione, si irrigidisce il sistema: una soluzione che se presa dal Parlamento è più flessibile e soggetta a ripensamenti, se cristallizzata da una pronuncia della Corte assume una rigidità che non è opportuna. Forse anche per questo la Corte fino ad oggi è stata prudente nell’utilizzare il nuovo Titolo V, a volte anche troppo perché ha evitato di utilizzarlo giudicando delle leggi anteriori all’entrata in vigore della riforma impugnate successivamente, laddove si sarebbe potuto pensare che avrebbe potuto utilizzare il nuovo parametro. Questa prudenza della Corte in parte è già cessata perché arrivano le leggi entrate in vigore dopo e la Corte sta applicando il Titolo V. In questa prima giurisprudenza della Corte sono emersi alcuni primi principi applicativi, soprattutto in riferimento alle sentenze 282 e 407 del 2002. E’ stato detto implicitamente ma chiaramente che le regioni possono legiferare senza aspettare le leggi cornice, malgrado fosse stata autorevolmente sostenuta la tesi opposta (Baldassarre). A ciò si lega il principio esplicitamente sancito per cui non c’è bisogno delle leggi cornice, i principi se non ci sono leggi nuove che li stabiliscono si ricavano, secondo il vecchio sistema, dal complesso della legislazione statale preesistente. Anche qui la Corte è andata in contrario avviso rispetto ad una parte della dottrina (Panunzio), ma anche se questo contrario avviso poteva avere dei fondamenti argomentativi, in una situazione di assoluto immobilismo sul piano legislativo era irrealistico pensare che la Corte adottasse un indirizzo che valorizzasse di più la competenza legislativa regionale, rinchiudesse di più i confini della competenza legislativa statale e dunque questa era la soluzione inevitabile. Fra le righe di queste sentenze sono emerse altre due cose interessanti: la Corte sembrerebbe orientata a ritenere che la legge statale nelle materie di competenza concorrente non possa più fare disposizioni di dettaglio con valore suppletivo. E’ un’interpretazione forse forzata di questa giurisprudenza ma un qualche indizio c’è; l’altro elemento è che si potrebbe ritenere che la Corte concordi con la tesi per cui il Governo, diversamente dal passato, non può più impugnare per qualsiasi vizio di costituzionalità le leggi regionali, ma lo possa fare solo denunciando il vizio di incompetenza, così come, in base al modello precedente, erano limitate a fare le regioni ma non lo Stato. Sarebbe del resto una soluzione più consona a quella pari dignità costituzionale fra Stato e regioni che emerge dal nuovo art. 114. Questa giurisprudenza in relazione al ddl La Loggia sostiene la soluzione dell’art. 1, comma 3. Potrebbe costituire un elemento in più per ritenere non opportuna quella soluzione del quarto e quinto comma dell’art 1 che prevede in mancanza di leggi cornice, una delega al Governo per la ricognizione dei principi fondamentali vigenti in materia (cfr. su questo l’intervento di Panunzio al convegno di Trapani). Questa giurisprudenza della Corte conferma che i casi sono due: o la soluzione della delega al Governo è incostituzionale perchè viola il 76, disattende la riserva di legge formale dell’art. 11 l. c. 3/01, ma soprattutto perché se come ha detto la Corte i pricipi è lei che li stabilisce secondo il vecchio modello, è inutile far fare questi decreti ricognitivi al Governo perché poi quello che deciderà sarà la valutazione della Corte e la ricognizione finisce per lasciare il tempo che trova. Sul ddl Bossi Panunzio afferma che sarebbe preferibile realizzare al meglio il disegno costituzionale esistente piuttosto che complicarlo ancora di più, attraverso peraltro una modifica sostanzialmente inutile visto che nel 116 c’è già la strada del regionalismo differenziato, anche perché vuole attribuire alla competenza delle regioni la polizia locale che già c’è sulla base, per cui è più un fatto di bandiera che non una reale esigenza costituzionale. Se questa è la situazione, due sono gli scenari possibili: uno è quello in cui il modello già inserito in Costituzione venga attuato, consentendo un’effettiva crescita delle autonomie e della democrazia pluralistica; l’altro è quello che le cose restano come sono in questo momento e si debba assistere, come dice Berti, ad una rivincita del centralismo e a un nuovo autoinganno.

Il Prof. Franco Bassanini interviene nel dibattito affermando innanzitutto di condividere le osservazioni del prof. Panunzio; va tuttavia espresso un parere un po’ più favorevole nei confronti del disegno di legge La Loggia. Il Prof. Bassanini osserva inoltre che gli interventi del Prof. Guarino e del Prof. Cassese sembrano riferirsi ad un oggetto totalmente diverso. Secondo il Prof. Guarino, infatti, la riforma del Titolo V rappresenta una riforma costituzionale rivoluzionaria scritta con grande maestria. Secondo il Prof. Cassese, invece, si tratta di una riforma molto carente anche sotto il profilo della formulazione tecnica, che comporta non una rivoluzione autonomistica, ma un qualche ritorno all’indietro ad una situazione intermedia tra lo Statuto Albertino e la Costituzione del ’48, almeno in rapporto alla forma di Stato.

Il ritratto delineato dal prof. Cassese può avere fondamento in relazione al tessuto normativo del titolo V, dove si è ancora poco indagato sulla diversa disciplina del riparto delle competenze legislative, amministrative e regolamentari. In riferimento all’applicazione dell’art.118, ad esempio, può trovare una giustificazione il richiamo alla “natura delle cose”, perché il legislatore competente (quello statale per i principi, quello regionale per le norme di svolgimento dei principi) deve riferirsi ai principi scritti nella Costituzione quali principi generali di riferimento che danno sostanza normativa e legittimazione ad un criterio interpretativo analogo a quello richiamato da Cassese. Nella distribuzione delle competenze amministrative, per individuare quelle funzioni che richiedono un esercizio unitario, bisogna pertanto fare riferimento ai principi di differenziazione, adeguatezza e sussidiarietà, che rappresentano quei criteri di ragionevolezza e di natura delle cose necessari per individuare il livello istituzionale cui affidare i poteri amministrativi. Le funzioni amministrative, infatti, sono in linea teorica affidate ai comuni, ma devono essere intestate a livelli istituzionali superiori (in quanto a dimensioni) ogni qual volta entrano in gioco interessi unitari, esercizio questo che non può condurre a soluzioni contraddittorie rispetto al nuovo disegno costituzionale.

Le grandi infrastrutture di trasporto e comunicazione, ad esempio, che secondo il terzo comma dell’art.117 sono materie di competenza concorrente, presentano il  problema della localizzazione delle grandi infrastrutture: tale problema, infatti, non si può risolvere solo osservando come lo Stato detti i principi e le Regioni le norme conseguenti il dettaglio. La localizzazione di una grande infrastruttura (ad esempio di tipo lineare, come un’autostrada) costituisce una funzione amministrativa, che presenta una stretta connessione con altre materie, tra cui l’assetto di competenze del territorio, le competenze in materia di promozione e sviluppo dell’economia locale, l’ambiente e il paesaggio, l’agricoltura e le foreste. Il dibattito apertosi sull’argomento ha mostrato come sia possibile sulla base della griglia del Titolo V arrivare ad una soluzione efficiente e rispettosa del sistema delle competenze: tale soluzione, infatti, va rinvenuta nelle procedure concertative. Per questo, si attribuisce al Consiglio dei Ministri, di concerto con la Regione, la localizzazione delle infrastrutture, mentre si riconosce alla Regione – coinvolgendo gli enti locali e le amministrazioni interessati – la localizzazione puntuale entro termini stabiliti, decorsi i quali subentra il Governo in virtù dell’art.120, ultimo comma. Tale meccanismo consente, in tempi certi, di uscire da un grave impasse, giungendo rapidamente ad un accordo ed evitando i contenziosi. Gli esempi sono numerosi: i casi del passante di Mestre e dell’autostrada tirrenica mostrano come applicare il titolo V possa portare a soluzioni rispettose delle autonomie, che sappiano altresì assicurare che una rete di infrastrutture rimanga pur sempre una rete.

Il Prof. Bassanini, d’accordo con la linea interpretativa del Prof. Panunzio, si sofferma poi ad osservare come la riforma del Titolo V rappresenti una riforma di notevoli dimensioni, che cambia la forma dello stato, ma che è tuttavia per molti versi incompiuta. L’integrazione essenziale è un riassetto della struttura del Parlamento, che sia coerente sia con il modello del federalismo cooperativo, sia con un modello di federalismo cui si giunge per scomposizione ed in cui è molto forte l’esigenza di strumenti sia di concertazione che di resistenza dei tentativi striscianti di ricentralizzazione dei poteri, delle competenze e delle risorse. Senza il Senato delle Regioni, in poche parole, è difficile “chiudere” questo assetto di riforme.

Molte, infatti, sono le lacune del testo e alcune di queste sono state addirittura “volute”: la decisione di non introdurre norme transitorie, ad esempio, è stata una scelta consapevole, perché si temeva che il meccanismo delle disposizioni transitorie potesse essere usato in senso dilatorio, con un effetto di vanificazione della portata della riforma medesima. L’assenza di norme transitorie sollecita tuttavia un’opera rapida ed intensa di predisposizione ed approvazione dei provvedimenti di attuazione e – si potrebbe aggiungere – di integrazione della riforma. Nessuna riforma nasce perfetta: anche in questo caso, vi sono infatti degli aggiustamenti da fare (alcuni, tra cui il ministro La Loggia, ha usato al riguardo il termine “restyling”).

Altra cosa dagli aggiustamenti è il disegno di legge sulla devolution: il disegno di legge del Ministro Bossi riflette infatti un modello diverso che, nella forma in cui pervenuto al Parlamento, presenta problemi interpretativi forzati. Qual è, infatti, il rapporto tra il nuovo comma dell’art.117 contenuto nel d.d.l. Bossi e il secondo e terzo comma dell’attuale art.117? Cosa vuol dire che le Regioni “attivano” la competenza legislativa esclusiva? Che rapporto ha questo con la previsione dell’art.116, terzo comma, sulla cosiddetta “geometria variabile”? Lo stato continua sempre ad avere il potere di determinare i livelli essenziali delle prestazioni nelle materie oggetto di devolution, la sanità e l’istruzione? Qual è il rapporto tra le competenze in materia di polizia locale, quelle in materia di polizia amministrativa degli enti locali e quelle in materia di polizia di sicurezza, di lotta contro la criminalità che, in virtù del secondo comma dell’art.117, sono competenza esclusiva dello Stato?

E’ assolutamente necessario dare attuazione in primo luogo all’art.119: il sistema, infatti, rischia di implodere se alle nuove competenze e responsabilità che almeno in parte sono già state trasferite alle Regioni e agli enti locali non farà seguito la realizzazione dell’autonomia finanziaria. Il comma 4 dell’art.119, in particolare, è l’unica previsione da cui si può ricavare una delimitazione quantitativa dell’autonomia finanziaria, nella misura in cui afferma che le risorse autonome, i tributi e le entrate propri, le quote di tributi erariali nonché il fondo perequativo devono consentire agli Enti Locali ed alle Regioni di finanziare integralmente le funzioni pubbliche loro attribuite. Per finanziare le nuove competenze, è quindi evidente come le risorse previste per i vecchi compiti e le vecchie funzioni (che peraltro sono state considerevolmente ridotte dalle ultime finanziarie) non siano assolutamente sufficienti.

Altre previsioni del nuovo Titolo V che richiedono interventi attuativi immediati sono: la legge di attuazione degli interventi sostitutivi del Governo ex art.120 Cost., ultimo comma; le leggi che stabiliscono i livelli essenziali delle prestazioni, a cui peraltro è strettamente legata anche la definizione del “quantum” delle risorse dell’art.119; le funzioni fondamentali dei Comuni; le leggi che nel nuovo assetto costituzionale hanno un ruolo fondamentale di raccordo (alcune delle funzioni di competenza esclusiva dello Stato ex art.117, comma 2 rappresentano infatti uno strumento di unificazione analogo a quello dei livelli essenziali della prestazioni, finalizzato alla realizzazione di un modello di federalismo cooperativo). La materia dell’ambiente, ad esempio, è legata ad una competenza esclusiva dello Stato, ma non coincide con la legislazione sull’ambiente, bensì con la legislazione di tutela dell’ambiente; analogamente, la tutela della concorrenza è una competenza assolutamente trasversale, caratterizzata teleologicamente dal fine di garantire la concorrenza.

Per questo, la soluzione di ricavare i principi dalla legislazione vigente rappresenta, come sosteneva Panunzio, un’“estrema ratio”, data l’evidente impotenza del Parlamento e del Governo ad affrontare immediatamente il problema delle nuove leggi di principio e dei nuovi principi fondamentali. Non è tuttavia criticabile più di tanto la soluzione cui è arrivato il disegno di legge La Loggia, come corretto ed emendato presso la I Commissione Affari Costituzionali del Senato. La critica più ricorrente, infatti, si è basata su due punti: in primo luogo, i principi fondamentali coerenti con il nuovo assetto non possono essere i principi fondamentali del diverso assetto costituzionale corrispondente al vecchio Titolo V della Costituzione, dal momento che occorrono principi nuovi coerenti con un sistema federale o semi-federale. In secondo luogo, delegare il Governo alla definizione di nuovi principi fondamentali si pone in contraddizione con il sistema costituzionale, perché il Parlamento non può delegare l’esercizio della funzione legislativa al Governo senza avere predeterminato principi e criteri direttivi. La legislazione di principio, in sostanza, non è delegabile: al Governo, infatti, si può delegare solo lo svolgimento dei principi, ma nel nuovo Titolo V lo svolgimento dei principi compete alle Regioni, per cui non ci può essere delega possibile.

Il d.d.l La Loggia, in realtà, non prevede una delega per la definizione di nuovi principi, ma solo la delega per un’operazione meramente ricognitiva dei principi esistenti, definiti in passato dal Parlamento. Si tratta, in sostanza, di un’operazione di predeterminazione legislativa dei criteri che il Governo seguirà nell’impugnare le leggi regionali per violazione del limite dei principi, materia comunque soggetta al vaglio della Corte Costituzionale. Se, in questi decreti legislativi delegati, il Governo dovesse indicare principi non presenti nella legislazione esistente, le Regioni potrebbero non rispettarli. Il Governo eventualmente potrebbe impugnare la legge regionale, e sarà allora la Corte a dover dire se tali principi erano rinvenibili nella legislazione esistente – nel qual caso la legge regionale sarà chiamata a rispettare tali principi – o se essi sono invece il frutto di un’invenzione del Governo – nel qual caso il Governo avrebbe violato l’art.76 della Costituzione, superando la delega del Parlamento. E’ vero che anche in tal caso la valutazione finale in materia di limiti ai principi è rimessa alla Corte Costituzionale, ma diverso è il punto di partenza, perché le Regioni così sanno che il Governo non impugnerà (o, almeno, non dovrebbe impugnare) leggi regionali rispettose dei principi individuati dal Governo medesimo. Lo stesso parlamento che dovrà occuparsi della definizione dei nuovi principi avrà grazie alla ricognizione del Governo un quadro di riferimento sui principi fondamentali ricavabili della legislazione vigente. In questo senso, la soluzione dell’art.1 del disegno di legge La Loggia ha qualche vantaggio e comporta scarsi rischi di contrasto con il modello costituzionale.

Resta tuttavia l’osservazione che delle varie misure di attuazione del nuovo testo costituzionale questa è la meno essenziale e la meno urgente: gli interventi di attuazione dell’art.119 e dell’art.120, la definizione dei livelli essenziali delle prestazioni, l’integrazione della Commissione bicamerale per le questioni regionali ex art.11, l’individuazione delle funzioni essenziali dei comuni sono infatti misure assai più importanti se vogliamo evitare di trovarci, mentre si accumulano i ricorsi alla Corte, in una situazione di caos costituzionale. Se continua ad avanzare una legislazione ispirata ad un assetto centralistico, a fronte di un modello costituzionale che invece si avvicina a quello degli stati federali, si può presupporre che la Corte Costituzionale applicherà la Costituzione, con la conseguenza che ci troveremo ad avere un tasso di incostituzionalità superiore a quello che normalmente un sistema può sopportare. Tutti i sistemi, in particolare quelli federali, sanno infatti che c’è un certo livello di contenzioso e un certo livello di dichiarazioni d’incostituzionalità, superati i quali si giunge al caos istituzionale.

In conclusione, il Prof. Bassanini dedica un’ultima osservazione alla legge regionale dell’Emilia Romagna citata dal Prof. Cassese. Il caso in questione è infatti esemplificativo della tendenza delle Regioni a mettersi in linea con i recenti orientamenti della Corte Costituzionale, incline ad usare il criterio della successione delle leggi nel tempo nel passaggio da un sistema costituzionale all’altro più che il meccanismo della dichiarazione d’incostituzionalità. Per evitare che la Corte Costituzionale individui comunque nella legislazione regionale lo strumento per sanare il contrasto tra le recenti leggi statali e il nuovo assetto costituzionale, le Regioni pensano pertanto che sia opportuno sostituire con legge regionale le leggi statali ritenute in contrasto con il nuovo assetto di competenze ex Titolo V. Per questo, alcune Regioni, pur non rinunciando ad impugnare quelle leggi statali approvate dopo l’entrata in vigore del Titolo V e ritenute incompatibili con il nuovo assetto, ritengono di avere anche il dovere di legiferare in modo coerente (o almeno supposto tale) con il nuovo Titolo V, per evitare che sia rinviata l’entrata in vigore della disciplina conforme al nuovo assetto delle competenze e che nel frattempo si producano decisioni irreversibili.

Se la Corte, ad esempio, applicasse tale principio alle leggi Lunardi, rimarrebbero valide le decisioni prese in materia di infrastrutture dal Ministro dei Lavori Pubblici, in applicazione di leggi che in ipotesi la Corte dichiarasse incostituzionali: tali decisioni, infatti, erano state prese in conformità di una legislazione che rimane comunque in vigore fino a che non intervengano le leggi regionali sostitutive delle leggi Lunardi. Estrema sarebbe tuttavia la soluzione di mantenere in vita provvedimenti amministrativi basati su una legislazione statale in contrasto con il nuovo Titolo V e quindi espropriativi di competenze regionali.

Elena Griglio e Luca Castelli