Dalla Corte costituzionale uno “stop” (definitivo’) ai Parlamenti regionali. Nota a Corte cost. n. 106/2002

10.07.2002

1. L’annullamento della delibera del “Consiglio regionale della Liguria-Parlamento della Liguria” – 2. Il rigetto della tesi per cui la denominazione “Parlamento” sarebbe riservata agli organi partecipi della sovranità – 3. L’adesione della Corte alla lettura democratica delle autonomie territoriali – 4. L’argomento letterale come ratio decidendi della pronuncia – 5. Ma quali sono i caratteri minimi di un “Parlamento”?

1. L’annullamento della delibera del Consiglio regionale della Liguria-Parlamento della Liguria – Con la sentenza 12 aprile 2002, n. 106, la Corte costituzionale, decidendo su un conflitto di attribuzioni sollevato dallo Stato, ha annullato la delibera n. 62 del Consiglio regionale della Liguria, del 15 dicembre 2000, la quale stabiliva che “in tutti gli atti dell’assemblea regionale, alla dizione costituzionalmente prevista ‘Consiglio regionale della Liguria’” fosse “affiancata la dizione ‘Parlamento della Liguria’”.

In questo modo, la Corte sembra anzitutto aver voluto porre un (primo) freno a quei reiterati abusi terminologici compiuti di recente, specie dai media, che hanno accompagnato il processo di ampliamento delle autonomie territoriali: si pensi all’abuso del termine “federalismo”, al quale si è fatto ricorso per descrivere processi che di federalistico avevano ben poco; o all’impiego della formula “governatori” per designare i presidenti delle regioni eletti direttamente dai cittadini, in base alla disciplina transitoria contenuta nella legge costituzionale n. 1 del 1999; o ancora, appunto, alle reazioni al protagonismo dei presidenti delle regioni poste in essere dai consigli regionali, il cui organo di coordinamento – ora composto da 66 rappresentanti dei 22 consigli delle regioni e delle province autonome, vale a dire dai presidenti dei consigli e da un rappresentante della maggioranza e uno dell’opposizione per ciascun consiglio – ha adottato l’ambizioso nome di “Congresso delle Regioni”.

In questo quadro va collocata anche la scelta di alcuni Consigli regionali (oltre alla Liguria, si segnalano le regioni Toscana, con una propria delibera legislativa, e Marche, con una “anticipazione” dello statuto) – supportata dallo stesso Congresso delle Regioni – di adottare (anche) la denominazione di “Parlamento regionale”, in qualche caso accompagnata altresì, sul piano non nominalistico ma sostanziale, dal tentativo, in vista dell’elaborazione dei nuovi statuti, di individuare un nuovo ruolo per le assemblee elettive, nel contesto di forme di governo con legittimazione diretta del vertice dell’esecutivo: nell’ambito di queste ultime, infatti, le assemblee devono fronteggiare l’agguerrita concorrenza degli esecutivi, sia sul terreno della legittimazione democratica (essendo anche questi ora dotati di un proprio carattere in qualche modo rappresentativo), sia sul più tradizionale terreno dei poteri (e in primo luogo di quelli normativi).

2. Il rigetto della tesi per cui la denominazione “Parlamento” sarebbe riservata agli organi partecipi della sovranità – Assai interessanti sono le motivazioni utilizzate dalla Corte per annullare la delibera del Consiglio regionale della Liguria.

La pronuncia della Corte ha infatti esplicitamente evitato di accogliere l’approccio suggerito nel ricorso dell’Avvocatura dello Stato. Secondo tale approccio, in sostanza, potrebbe denominarsi “Parlamento” solo un organo partecipe della sovranità, mentre la denominazione “Consiglio regionale” sarebbe la sola corretta per riferirsi ad organi rappresentativi di soggetti autonomi, e non sovrani. In ciò l’Avvocatura aveva tratto esplicita ispirazione da quella dottrina che, pur ritenendo inesatto qualificare il Parlamento come “organo del popolo”, ha rilevato che “le due Camere sono, fra gli organi costituzionali dello Stato, quelli più strettamente collegati col popolo e quelli in cui la volontà popolare più immediatamente ed efficacemente si esprime”. Pertanto, la sovranità popolare, “che il Parlamento incarna e rappresenta”, precluderebbe l’impiego di tale denominazione con riferimento a organi della Regione, che sono comunque rappresentativi di poteri di autonomia e non di poteri sovrani.

In senso contrario, la Corte ha riconosciuto l’esistenza del “legame Parlamento-sovranità popolare”, ma ha negato che esso possa descriversi come “una relazione di identità”; e ha osservato che, alla luce dell’art. 1 Cost., che “non è il principio di sovranità popolare a poter fondare un’attribuzione costituzionale all’uso esclusivo della denominazione ‘Parlamento’”, a meno che non si voglia racchiudere lo stesso principio di sovranità “entro uno schema troppo angusto e ormai storicamente inattendibile”. Ad avviso della Corte, infatti, nonostante i colpi inferti al principio di sovranità dal processo di integrazione europea e dal fenomeno che va sotto il nome di globalizzazione (sembrano queste, benché non del tutto esplicitate, le realtà sottese alle formule del “nuovo orizzonte dell’Europa” del “processo di integrazione sovranazionale”), si possono tuttora individuare, sui temi connessi alla sovranità, alcuni “punti fermi”; e tra questi vi è l’impossibilità che la sovranità, in quanto appartenente al popolo, si esaurisca in un solo organo costituzionale, per quanto diretto sia il legame tra esso e il corpo elettorale.

3. L’adesione della Corte alla lettura democratica delle autonomie territoriali – Nella parte della motivazione dedicata a respingere le argomentazioni dell’Avvocatura dello Stato si segnala un passaggio di grande interesse ai fini della definizione della determinazione della posizione delle autonomie territoriali nell’ordinamento costituzionale italiano, anche alla luce del nuovo titolo V Cost., richiamato qui per la prima volta nella giurisprudenza costituzionale.

La Corte ha infatti accolto la lettura democratica del fenomeno autonomistico, già proposta, in dottrina, in particolare da G. Berti e da G.C. de Martin, sottolineando, per un verso, che “le forme e i modi nei quali la sovranità del popolo può svolgersi […] non si risolvono nella rappresentanza, ma permeano l’intera intelaiatura costituzionale: si rifrangono in una molteplicità di situazioni e di istituti ed assumono una configurazione talmente ampia da ricomprendere certamente il riconoscimento e la garanzia delle autonomie territoriali”; e ricordando, per altro verso, che risale alla Costituente la visione per la quale le autonomie territoriali “sono a loro volta partecipi dei percorsi di articolazione e diversificazione del potere politico strettamente legati, sul piano storico non meno che su quello ideale, all’affermarsi del principio democratico e della sovranità popolare”.

In questa chiave va letto il richiamo al nuovo titolo V della parte seconda della Costituzione, introdotto dalla legge costituzionale n. 3 del 2001. La revisione costituzionale era stata invocata dalla regione Liguria a supporto della denominazione “Parlamento regionale”, in virtù della marcata assimilazione funzionale, derivante dal nuovo art. 117 Cost., tra assemblea legislativa statale e assemblea legislativa regionale e tra le rispettive potestà normative. Nella motivazione della Corte la riforma del titolo V Cost. è oggetto di una lettura volta a coglierne soprattutto gli elementi di sviluppo dei princìpi fondamentali della carta costituzionale: “i significativi elementi di discontinuità che sono stati in tal modo introdotti non hanno intaccato le idee sulla democrazia, sulla sovranità popolare e sul principio autonomistico che erano presenti e attive sin dall’inizio dell’esperienza repubblicana”. E lo stesso nuovo art. 114 Cost., nel quale, con una formula innovativa e che è stata oggetto anche di commenti assai critici, le autonomie territoriali sono state poste sullo stesso piano dello Stato come elementi costitutivi della Repubblica, si presta ad essere letto, sempre secondo la Corte, come un’ulteriore conferma della comune derivazione di tutti i soggetti in questione – i Comuni, le Province, le Città metropolitane, le Regioni e lo Stato – dal principio democratico e dalla sovranità popolare.

4. L’argomento letterale come ratio decidendi della pronuncia – La motivazione della sentenza, scartata come si è visto la via della riconduzione del nome Parlamento al soggetto contraddistinto dalla sovranità, si è appoggiata invece essenzialmente sul dato lessicale e sul “valore deontico degli articoli 55 e 121 della Costituzione, che si traduce in un vero e proprio divieto per i Consigli regionali di appropriarsi del nome Parlamento”. In verità, la Corte ha dichiarato di non volersi limitare al solo argomento letterale, intendendo invece saggiarlo alla luce degli altri canoni dell’interpretazione costituzionale.

Ma ciò, a ben vedere, è accaduto solo assai parzialmente, in quanto, al di là degli argomenti usati per rigettare la tesi dell’Avvocatura dello Stato, la Corte ha accuratamente evitato di andare “alla ricerca di una nozione ‘sostanziale’ di Parlamento”. Le denominazioni utilizzate dalla carta costituzionale rendono infatti, ad avviso della Corte, non necessaria tale ricerca. E’ sufficiente perciò un sommario richiamo agli elementi che giustificano tali diverse denominazioni: in particolare al fatto che “solo il Parlamento è sede della rappresentanza politica nazionale (art. 67 Cost.), la quale imprime alle sue funzioni una caratterizzazione tipica ed infungibile”; e alla circostanza che “il nomen Parlamento non ha un valore puramente lessicale, ma possiede anche una valenza qualificativa, connotando, con l’organo, la posizione esclusiva che esso occupa nell’organizzazione costituzionale”.

Nell’ottica di evitare ogni riferimento a problemi di carattere sostanzialistico si spiega, forse, anche il mancato richiamo di un precedente (la sentenza 12 luglio 2001, n. 292) – vicino, benché anteriore all’entrata in vigore del nuovo titolo V – nel quale la Corte costituzionale, nel respingere un conflitto di attribuzioni sollevato dalla Regione Trentino-Alto Adige e dalla Provincia autonoma di Trento avverso la Corte dei conti, ha ribadito che ai consigli regionali non può estendersi la deroga, rispetto alla generale sottoposizione alla giurisdizione contabile, prevista per le Camere parlamentari, per la Presidenza della Repubblica e per la Corte costituzionale. E ha fatto ciò sulla base dell’argomento per cui le assemblee elettive delle regioni non sono “parificabili alle assemblee parlamentari”, dal momento che i consigli regionali godono, in base alla Costituzione, di talune prerogative analoghe a quelle tradizionalmente riconosciute al Parlamento, “ma, al di fuori di queste espresse previsioni, non possono essere assimilate ad esso, quanto meno ai fini della estensione di una disciplina che si presenta essa stessa come eccezionale e derogatoria”.

5. Ma quali sono i caratteri minimi di un “Parlamento”? – La mancata considerazione degli elementi di carattere sostanzialistico ha evitato alla Corte costituzionale di affrontare una questione dalla soluzione tutt’altro che agevole: quella sul che cosa sia un “Parlamento”; di quali caratteri “minimi”, cioè, debba essere dotata un’assemblea elettiva per definirsi assemblea parlamentare.

Non è questa la sede per soffermarci su tale questione, se non per ricordare, per un verso, che “il termine ‘parlamento’ comprende realtà spesso fra loro non coincidenti che variano sia nel corso delle diverse epoche storiche sia, in una medesima epoca storica, nei diversi regimi politici”, benché nel XX secolo Parlamento sia stato in genere sinonimo di organo elettivo dotato di poteri legislativi; e per segnalare, per altro verso, che la Corte europea dei diritti dell’uomo, in una sua recente – e controversa – pronuncia (Matthews vs. United Kingdom del 18 febbraio 1999), ha riconosciuto il Parlamento europeo come “corp legislatif” o “legislature” ai sensi dell’art. 3 del protocollo n. 1 alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo del 1950, in quanto tale organo, pur non essendo dotato di pieni poteri legislativi, costituisce, oggi, il principale strumento di controllo democratico e di responsabilità politica nel sistema comunitario.

Eppure, di alcuni “punti fermi” pure su tale questione vi sarebbe un gran bisogno, anche perché la spinta all’equiparazione dei consigli regionali ai parlamenti sembra essere tutt’altro che esaurita, così come mostrano una serie di elementi. In primo luogo, il contenuto di un disegno di legge governativo nel quale, tra l’altro, si è prevista, con norma di legge ordinaria, l’estensione ai consiglieri regionali del divieto di mandato imperativo estendendosi perciò ad essi proprio quell’art. 67 Cost. su cui la Corte ha fatto leva per sostenere il carattere nazionale della rappresentanza politica. In secondo luogo, gli intendimenti del ministro delle riforme istituzionali, il quale si è proposto, tra l’altro, di approfondire l’ipotesi di “estendere ai consiglieri regionali e ai consiglieri delle province autonome di Trento e di Bolzano le stesse immunità previste per i parlamentari nazionali”, in nome di “una sorta di federalismo delle garanzie, nel senso che a tutti i rappresentanti eletti dal popolo che fanno leggi dovrebbero essere garantite le stesse immunità, compresa quell’inviolabilità (cioè l’immunità dagli arresti) stabilita ora solo per i parlamentari nazionali”. In terzo luogo, la presa di posizione della Conferenza dei presidenti dei consigli regionali che, nonostante la sentenza in commento, ha rivendicato “il diritto delle assemblee regionali di adottare, per i Consigli regionali, la denominazione di “Parlamento” e la permanenza, nei progetti di alcuni statuti regionali, di denominazione diverse (o aggiuntive) rispetto a quella di consigli regionali per gli organi rappresentativi. In quarto ed ultimo luogo, il dato comparatistico, il termine Parlamento comparendo anche per riferirsi alle assemblee di autonomie territoriali collocate all’interno di Stati a carattere non federale.

Se queste spinte dovessero proseguire, la Corte, in coerenza con i princìpi affermati nella sentenza in commento, potrebbe “arroccarsi”, sulla base del dato letterale, nella tutela della denominazione costituzionale di “consigli regionali”, di fronte all’uso di qualsivoglia termine aggiuntivo o sostitutivo di quello costituzionale. Tuttavia, tale posizione presenterebbe il rischio di indurre il legislatore costituzionale ad operare una (ulteriore) revisione dell’art. 121 Cost., nel senso di ridefinire il nomen delle assemblee regionali o di lasciare agli statuti la scelta anche della denominazione degli organi di ciascuna regione. L’alternativa, per la Corte – e, ancor prima, per la dottrina – potrebbe essere quella di intraprendere la più ardua via di valutare la corrispondenza del “nome” con la “cosa”, iniziando così ad affrontare la questione di quali siano i caratteri minimi perché un organo rappresentativo possa definirsi “Parlamento”, o anche, a contrario, di quali siano i connotati di un “Consiglio” o di una “Assemblea”, idonei a contraddistinguerli da un “Parlamento”.

di Nicola Lupo