Presentazione del Rapporto sulla scuola dell’autonomia 2002

08.07.2002

Presentazione del ‘Rapporto sulla scuola dell’autonomia 2002’

(redatto a cura dell’Osservatorio sulla scuola dell’autonomia del Centro di ricerca sulle amministrazioni pubbliche ‘Vittorio Bachelet’)

Roma, 7 giugno 2002

Aula Magna LUISS Guido Carli

a cura di Daniela Bolognino e Luca Castelli


presiede: Antonio D’Amato (Presidente Luiss Guido Carli)

introduce: Gian Candido De Martin (Direttore Osservatorio sulla scuola dell’autonomia)

modera: Roberto Napoletano (Vicedirettore ‘Il Sole 24 ore’)

I panel

I chiaroscuri nell’attuazione della riforma dell’autonomia delle istituzioni scolastiche

    • Giovanni Cannata (Conferenza Rettori Università)
    • Lorenzo Caselli (Fondazione Scuola ‘Compagnia S. Paolo’)
    • Carlo Dell’Aringa (ISFOL)
    • Giuseppe De Rita (Censis)
    • Rosario Drago (Miur)
    • Umberto Margiotta (Università di Venezia)
    • Attilio Oliva (3elle)

II panel

La scuola dell’autonomia e le prospettive di relazione con il territorio e l’impresa.

    • Luigi Compagna (VII Commissione del Senato della Repubblica)
    • Giampaolo D’Andrea (VII Commissione del Senato della Repubblica)
    • Silvio Fortuna (Confindustria)
    • Savino Pezzotta (CISL)
    • Andrea Ranieri (Organismo Bilaterale Formazione)

Il prof. De Martin sottolinea alcuni elementi salienti del ‘Rapporto sulla scuola dell’autonomia’, che rappresenta il risultato dell’attività di ricerca avviata all’interno dell’Osservatorio sulla scuola dell’autonomia del Centro Bachelet. Il punto di partenza è la scelta dell’autonomia scolastica, che nel nostro ordinamento si è formalmente compiuta con la legge 59/97, che considera l’opzione per l’autonomia delle istituzioni scolastiche non come un’improvvisazione, bensì come il punto di partenza per una riforma organica del sistema scolastico, attraverso il superamento della logica ministeriale gerarchica e la responsabilizzazione della comunità scolastica nelle sue diverse componenti, in una dimensione di autogoverno. Il regolamento dell’autonomia del ’99 ha poi dato sviluppo a questa scelta, che va inquadrata nell’ambito di un orizzonte nazionale del sistema di istruzione, che mantiene la sua fisionomia unitaria non solo per quanto riguarda il diritto allo studio, ma anche per tutta una serie di elementi comuni, anzitutto sul piano dei curricula formativi e dei punti di riferimento principali delle strutture di supporto delle scuole dell’autonomia. Questa scelta avrebbe dovuto comportare tutta una serie di conseguenti riforme e adeguamenti, sia sul piano degli ordinamenti scolastici, sia su quello delle strutture organizzative, adeguamenti che sono sopravvenuti in misura assai limitata: ricordiamo il decreto sul dimensionamento della rete scolastica, che ha precisato il ruolo di enti locali e regioni in materia scolastica e ha prefigurato alcune strutture di supporto nuove delle scuole autonome, che sono decollate peraltro in maniera molto disomogenea. La scelta di fondo dell’autonomia avrebbe di per sé dovuto comportare anche in modo rapido e tempestivo una revisione più profonda di tutto l’assetto del sistema, in una logica fondata sul policentrismo: la revisione degli ordinamenti scolastici, il sistema nazionale di valutazione, il reclutamento e la formazione del personale. In realtà tali scelte non si sono realizzate e l’autonomia scolastica appare in mezzo al guado: da un lato apparentemente rafforzata di recente dalla costituzionalizzazione del principio dell’autonomia funzionale delle scuole nella riforma del Titolo V, dall’altro lato rallentata da una serie di tendenze legislative che appaiono sostanzialmente disgiunte, disattente alla scelta di fondo dell’autonomia, come il regolamento sulla scuola di base, il disegno di legge sulle norme generali sull’istruzione, il dibattito in corso sulla revisione degli organi collegiali, la proposta c.d. ‘Bossi’ che riserva alle regioni un ruolo molto rilevante in materia anche di formazione dei curricula scolastici. Anche nel riassetto dell’amministrazione scolastica stanno riprendendo forza alcune logiche burocratiche tradizionali di stampo centralista che non sembrano coerenti con quello che era stato originariamente immaginato per supportare il sistema della rete delle autonomie scolastiche.

Dato questo contesto di incertezze ci è parso, come Osservatorio sulla scuola dell’autonomia, a maggior ragione importante cercare di monitorare ciò che nonostante tutto cammina in una direzione innovativa nel mondo della scuola, in virtù essenzialmente della intrinseca vitalità che esso continuamente rivela e che dà la misura di potenzialità molto positive. Il ‘Rapporto 2002’ si è proposto di fare non tanto il punto in chiave statistica sul grado di realizzazione dell’autonomia e sulle criticità presenti nell’intero universo della scuola italiana, ma piuttosto di cogliere le esperienze virtuose, il segno cioè di sperimentazioni, di innovazioni che sono in corso nei vari profili dell’autonomia e che possono essere uno stimolo utile anche per coloro che non hanno ancora iniziato a interpretare costruttivamente questa opportunità. La scelta fatta non è quella di un campione statistico, ma di un campione atipico, attraverso la creazione di una rete di 824 scuole con 44 referenti territoriali su tutto il territorio nazionale, che ci hanno aiutato ad individuare le scuole che a vario titolo presentano motivo di interesse sotto questo punto di vista. Si tratta di un panorama ristretto, circa un decimo delle scuole italiane, ma intanto abbiamo cominciato con questa rete che potremo rinforzare in futuro e dalla quale sono comunque emersi risultati interessanti, perché dimostrano come, sia pure in chiaroscuro, l’autonomia possa essere interpretata creativamente. Ad esempio il 70% delle scuole interpellate hanno predisposto il progetto dell’offerta formativa a seguito di una riflessione e di relazioni col territorio, innovando in una logica che vedeva la scuola molto chiusa in una dimensione centralistica. Oltre la metà delle scuole hanno introdotto talune soluzioni autonome nell’organizzazione della didattica, nei gruppi classe. Forse più timida è stata l’esperienza di autovalutazione delle scuole, che è decollata con questionari e forme varie di autoorganizzazione soltanto nel 40% delle scuole osservate.

Il Rapporto è stato l’occasione per fare il punto, con apporti di esperti particolarmente qualificati, sia sui profili istituzionali dell’autonomia scolastica, sia sui maggiori problemi tecnici che frenano o complicano lo sviluppo dell’autonomia. In conclusione il prof. De Martin riafferma l’impegno del Centro Bachelet a continuare nel monitoraggio, per accompagnare con riflessioni critiche, proprie di una sede di ricerca, il non facile cammino dell’autonomia, che si vorrebbe irreversibile e accompagnato da misure coerenti e tempestive, per il compimento di un tragitto certo non facile e che richiede il massimo di convergenza tra tutti i protagonisti.

Il prof. De Rita evidenzia che la lettura del Rapporto 2002 mette in luce tre spunti di riflessione: il primo è eminentemente politico-istituzionale e consiste nell’interrogarsi sul significato dell’autonomia scolastica oggi, all’interno di un processo di decentramento, di federalismo, di assunzione di responsabilità da parte della periferia. Questo significato sta nel proporre una logica di crescita della periferia diversa da quella che sta sul tappeto delle riforme istituzionali, cioè una riforma che dovrebbe partire dalle molecole del sistema, le singole scuole, e che viene da circa un decennio strozzata in termini di imposizione di un decentramento dall’alto. Il problema è dunque vedere se una realtà di valorizzazione dell’autonomia, sia scolastica che delle realtà locali, debba crescere dal basso o essere delegata dall’alto. Naturalmente serve più tempo a far crescere dal basso un sistema di autonomia, ma alla fine sarebbe stato giusto farlo in termini di creazione dello Stato delle autonomie e non di devolution. Questo è un problema di straordinaria attualità politica, perché siamo alla vigilia di un potenziale fallimento della devolution, con un Titolo V che non riesce ad essere attuato, con una legge La Loggia che non riesce ad esser chiusa, con un grave deficit dei bilanci regionali in materia di sanità, e fra qualche hanno ci sarà un crack se non si modifica questa logica della devoluzione dall’alto. Si tratta di un modello costruito male perché non tiene conto che un sistema come quello italiano ha bisogno di crescere lentamente e dal basso. Questo Rapporto dà proprio il senso di dire che almeno la scuola non va verso questa logica. Il secondo punto di riflessione consiste nel chiedersi se la singola scuola sia in grado di crescere da sola verso l’autonomia. Sotto questo profilo emergono tre fili rossi: il primo è che l’autonomia deve nascere dall’interno della scuola, poi che deve configurarsi come un’operazione culturale e non manageriale, infine che deve comportare un forte collegamento col territorio. Questi tre elementi non sono soltanto le opzioni di fondo del Rapporto, ma sono le vere opzioni reali da cui dipende la concreta declinazione dell’autonomia. De Rita si chiede allora se questa ricerca corrisponda a questi tre elementi o se invece ci siano delle debolezze nel sistema scolastico italiano che emergono nel momento in cui viene messo alla prova dell’autonomia. La risposta è che il Rapporto dimostra una grande buona volontà delle scuole ad andare avanti nella direzione dell’autonomia, ma una certa primordialità nel corrispondere a questi tre livelli. La terza riflessione è legata all’alternativa fra sperimentazione o accompagnamento, nel senso di chiedersi se le scuole cercano ognuna una propria strada all’interno delle prospettive delineate dalle leggi e dai regolamenti, oppure se il problema dell’autonomia debba essere seguito politicamente in maniera diversa da come è stato finora. Non bisogna lasciare l’autonomia troppo al suo destino, ma bisogna seguirla perché altrimenti si sgonfia e senza un segnale di lunga deriva culturale cui l’autonomia si colleghi, quello che resta sono soltanto singoli episodi di volontarismo. Da questo punto di vista fondamentale è la valutazione, perché senza valutazione non si fa autonomia.

Il prof. Cannata sottolinea che se la scuola è in mezzo ad un ciclone, anche l’università si trova nella stessa situazione. Del Rapporto viene apprezzato il fatto che non presenti una consueta analisi statistica, né statica, ma un’analisi fondata su un tentativo di ricognizione della qualità dei processi all’interno delle istituzioni scolastiche. Tuttavia il cuore del ragionamento sull’autonomia è e deve essere nell’autonomia didattica e formativa. L’autonomia è uno strumento per esaltare la diversità di strumenti operativi e di territori, ben lungi da qualsiasi riflessione di confinamento dentro prospettive microregionalistiche. Un secondo elemento, che accomuna il mondo della scuola a quello dell’università, è la necessità di superare una condizione che spesso si traduceva in rischi di autoreferenzialità, verso un sistema più aperto per i portatori di interessi, il che vuol dire una migliore capacità d’ascolto e di coprogettazione dei percorsi formativi. Il punto cruciale sta però dentro la costruzione dell’autonomia didattica e formativa e sotto questo profilo l’autonomia diventa un banco di prova innanzitutto per una responsabilizzazione di tutte le componenti che partecipano al percorso formativo, poi per capire come si incrementa e si diversifica l’offerta formativa sui territori, infine per arricchire e costruire nei territori reti di confronto e di interscambio. Ci sono in particolare alcuni punti sui quali è importante che fra autonomie della scuola, dell’università, e territoriali vi sia un rapporto maggiore: la questione dell’orientamento, che non può essere ridotto a mero esercizio burocratico; le scuole per la formazione degli insegnanti con riferimento a tre temi: tutoraggio, verifiche, valutazione finale; la formazione tecnica superiore (Fts), che è un cantiere aperto sul quale occorre ancora lavorare; la progettazione dell’offerta formativa; la valutazione. Un tema di fondo dal quale non si può prescindere è quello delle risorse, perché le riforme a costo zero sono quelle che hanno sempre avuto un impatto limitato. Sarebbe utile che il Rapporto si potesse ripetere, monitorando non solo le cose che camminano, ma anche quelle che fermano il cammino e monitorando congiuntamente tutte le realtà che formano la filiera formativa, comprese università e formazione professionale.

Il prof. Caselli evidenzia che la Fondazione scuola della ‘Compagnia di S. Paolo’ si trova in larga consonanza con le risultanze del Rapporto e con la filosofia che lo ispira. Molte sono le contraddizioni, i chiaroscuri del processo di autonomia, anche se dal Rapporto emerge che nonostante tutto nella scuola italiana ci sono cose che camminano sul piano quantitativo e qualitativo, ci sono molti casi virtuosi che dimostrano gli spazi e le opportunità disponibili dentro ogni singola scuola. A proposito di casi virtuosi il prof. richiama il concorso ‘Cento scuole’, di cui è stata lanciata a livello nazionale la terza edizione ad opera della Fondazione. Tale concorso si rivolge alle scuole secondarie con l’obiettivo di stimolare e promuovere l’ideazione di nuove iniziative di carattere formativo, concorrendo a far crescere una cultura progettuale tra studenti, insegnanti, personale dirigente. Ci sono tutt’ora in portafoglio 200 progetti tra i quali ne sono stati evidenziati 60 che sono stati premiati e vengono seguiti dalla Fondazione. I progetti seguiti rispondono ai seguenti requisiti: valenza formativa ed educativa, praticabilità tecnica e finanziaria, originalità e qualità, ricaduta sulla scuola e trasferibilità del modello, capacità di coinvolgimento di altri soggetti. Aree di intervento progettuale sono l’assunzione di responsabilità verso l’altro, attraverso la promozione di pratiche di inclusione e apertura alla multiculturalità; la valorizzazione del patrimonio culturale e ambientale; monitoraggio ecologico; recupero della memoria e delle tradizioni; miglioramento dell’organizzazione didattica della scuola; espressività artistico teatrale; rapporto con il mondo del lavoro; apertura all’Europa. Rispetto a questa esperienza la Fondazione si è data una strategia ben precisa, che è quella di seguire le scuole e metterle in rete. Il concetto di autonomia non può essere declinato in astratto, la sua efficacia richiede per lo meno due condizioni: la prima è la massimizzazione delle chanche di successo da parte dei giovani, sul presupposto che ogni ragazzo perso è una sconfitta per la scuola e per il sistema sociale e che non si possono precludere le strade davanti ai giovani con scelte precocemente irreversibili; la seconda è la realizzazione di un effettivo coordinamento tra il sistema educatico-formativo e quello socio-istituzionale: c’è bisogno cioè di sistemi aperti, policentrici, dialoganti. Queste due condizioni assumono una valenza particolare con riferimento alla tematica della dispersione scolastica, che nel nostro paese è pari al 30%. La scuola è destinata a cambiare non solo per le riforme in atto, ma anche e soprattutto per i grandi cambiamenti a livello sociale e culturale, con il cambiamento degli stili di vita; a livello economico produttivo, con la fine del fordismo; con l’allargamento degli orizzonti di riferimento, l’Europa e la globalizzazione. Ci si relazione in modo profondamente diverso e tutto questo impatta sulla scuola, riforma o non riforma. La formazione non è solo fattore di competitività del sistema paese, ma è soprattutto diritto di cittadinanza, garanzia di libertà, ampliamento dell’area di inclusione, quindi fattore di coesione sociale. Scegliere un modello di educazione significa scegliere, come diceva Delors, un modello di società. Nel panorama europeo l’Italia è un caso molto particolare, perché il divario tra la parte ‘colta’ e la parte ‘incolta’ della popolazione è ancora enorme, moltissime famiglie non sono in grado di sostenere sul piano culturale e motivazionale lo studio dei propri figli, una parte considerevole della popolazione scolastica non ha strumenti per capire che senso ha andare a scuola e acquisire cultura. Nel progettare la nuova scuola non si può prescindere da queste esigenze: si richiama spesso la necessità di avere a disposizione scuole di eccellenza, ma altrettanto indispensabile appare una generalizzazione di buone scuole, al servizio di una buona società in cui vivere.

Il prof. Dell’Aringa mette in luce come nel Rapporto il problema della riforma della scuola sia collocato in quello più generale della riforma della pubblica amministrazione, che è stata imposta dalla necessità di aumentare la qualità dei servizi attraverso il contenimento della spesa, con motivazioni che in qualche misura sono anche economiche. Tali problemi sono stati affrontati con diverse strumentazioni: la prima è quella di iniettare dosi di mercato o quasi-mercato nei settori pubblici, avendo come riferimento l’efficienza del settore privato; il secondo strumento è quello di adottare tecniche di management, con comportamenti orientati ai risultati; il terzo strumento è la devolution, ma il nocciolo della questione è di dare autonomia alle singole unità che forniscono servizi. Ciò premesso, la domanda che viene spontanea è se c’è abbastanza autonomia. Anche per quanto riguarda la valutazione dei singoli istituti, che poi si riduce nella valutazione dei risultati, siamo molto indietro. Il dato italiano da questo punto di vista è significativo: all’asilo mandiamo il 95%, all’università siamo agli ultimi posti nel mondo. C’è poi il problema dell’apprendimento di quelli che non abbandono e di come questo apprendimento viene utilizzato, non solo sul lavoro, ma per la vita stessa. Valutare i risultati è estremamente complicato e il Rapporto segnala bene un dato fondamentale, per cui la valutazione deve tenere conto del contesto. Se non si fa prima una valutazione per valutare il sistema, attraverso un’analisi dei singoli percorsi formativi, non si hanno gli strumenti per operare poi le valutazioni degli insegnanti a fini di incentivazione. Il mondo della formazione professionale, soprattutto negli ultimi tempi, ha esasperato il modello della competizione per cercare le risorse, dando luogo ad una grande frammentazione e instabilità, che contribuisce talvolta ad una qualità bassa. Può essere utile mettere insieme le riflessioni svolte sul mondo della scuola con quelle fatte sul mondo della formazione professionale e ciò può rappresentare una indicazione da tener presente nella stesura del secondo Rapporto.

Il prof. Drago aggiunge al dibattito un punto di vista un po’ diverso da quello finora emerso, sul presupposto che per una diagnosi del sistema scolastico in Italia bisogna avere un approccio da forestieri piuttosto che da nativi. Il limite maggiore è invece che tutti noi abbiamo vissuto quelle scuole, quel modo di fare scuola e lo riteniamo come partecipe del mondo organico, ciò che non è. La prima questione offerta alla riflessione dei presenti è che stiamo vivendo in un momento culturale di nostalgia del sistema scolastico. Esso non esiste più, non ha più coesione, tutti i nostri tentativi sono volti a ricostruire un sistema regolato in modo amministrativo, nato con lo Stato nazionale, rafforzato nel 1911 con la statalizzazione di tutte le istituzioni scolastiche. Vorremmo poter gestire quel sistema con la stessa efficacia e penetrazione, cosa che non è più possibile. Ecco perché viviamo il paradosso per cui, da quando abbiamo iniziato a parlare di autonomia nel 1993, è aumentato in modo esponenziale il tasso di regolazione delle istituzioni scolastiche: il più alto numero di provvedimenti prodotti dall’amministrazione scolastica si è avuto nel 1997 con 941 atti amministrativi. In due anni si sono raddoppiate le pagine del glorioso manuale Giannarelli, da 2200 del ’96 a 8287 del ’99. La seconda questione è che non ci rassegniamo all’autonomia perché la consideriamo una rinuncia: l’autonomia è concessa, per cui lo spirito con cui avviene il processo è quello di un sospetto e di una sfiducia di tutti i protagonisti. L’enfasi organizzativa che si legge anche nel Rapporto è un sostituto funzionale di un deficit educativo, l’autonomia non è stata accompagnata da un messaggio educativo e questo è il problema più grave. Nel dopoguerra avevamo delle imprese educative in Italia: i convitti di rinascita, le scuole Montessori, le scuole civiche, tutte queste realtà sono state completamente uniformate, omologate. L’autonomia ha senso se c’è impresa educativa, se c’è un’idea di educazione pluralistica, democratica. Ci sono state delle perdite anche in campo organizzativo: negli istituti tecnici professionali si svolgevano periodicamente concorsi per le assunzioni di professori di materie tecniche e la presidenza degli organi collegiali di questi istituti era prestigiosamente rappresentata da coloro che oggi hanno nomi famosi nell’ambito dell’imprenditoria. Cosa è successo in questi anni perché questo rapporto così naturale tra la scuola e l’impresa si sia oggi trasformato nel termine spregiativo di aziendalismo? Il tema della libertà organizzativa connesso all’impresa educativa è il grosso problema che ci si trova di fronte. Gli organi collegiali, inventati da Giovanni Gentile, erano due: il collegio dei docenti e il consiglio di classe. Questo modello si è poi sviluppato ed ha prodotto un modello molto strano per cui l’organizzazione scolastica continua ad essere non una libera connessione tra mezzi e fini, ma un’applicazione di modelli amministrativi agli obiettivi educativi: a scuola non si può parlare di gruppo che non diventi un comitato, non si può parlare di un’equipe che non diventi un organo, non si può parlare di un’assemblea che non sia un collegio. Questa nomenclatura è un sintomo di malattia e di mancanza di autonomia culturale delle istituzioni scolastiche. Per Drago bisogna uscire dal messaggio sostanziale di sfiducia che è nato con la regolazione nazionale nei confronti degli attori dell’istituzione scolastica e recuperare il modello dell’impresa educativa, come comunità che rischia, che decide di attuare un’idea dell’educazione attraverso i curricula, le discipline, gli obiettivi educativi, un particolare modello organizzativo.

Il prof. Margiotta ringrazia gli estensori del Rapporto che considera uno dei pochissimi contributi degli ultimi anni di rilevante interesse in materia di ricerca sulla politica scolastica, perché tra le altre cose introduce uno stile di umiltà nell’approccio alle varie problematiche, che è tanto più apprezzabile quanto più si consideri che viene a riguardare una materia fortemente ideologizzata. L’autonomia scolastica, nel modo in cui si è evoluta, può costituire bipartisan un punto di riferimento per tutti per il futuro della formazione nel nostro paese? Questa è una domanda che il Rapporto sottolinea in ogni sua parte e rispetto alla quale pone una serie di riflessioni interessanti, quali l’autonomia come cultura costituente, come progetto comune…Tuttavia è una bella utopia dire che l’autonomia o viene dal basso o non è autonomia: la realtà è che è venuta dall’alto e il Rapporto testimonia con dovizia di casi che la percezione è quella di uno stato di incertezza, per cui l’autonomia è vissuta ancora come devoluzione. Invece è più serio porsi delle domande di merito su come sia possibile sviluppare quel progetto formulando degli itinerari possibili di lavoro comune. Un primo elemento da considerare è il ruolo che ricerca e sviluppo giocano nel futuro delle autonomie funzionali e sotto questo profilo la legge 59/97 rappresenta una regressione rispetto alla 357/93; occorre poi chiedersi quale modello culturale può esserci dietro al rapporto tra il sistema scolastico e quello formativo, al fine di consentirne la progressiva integrazione; bisogna infine domandarsi se sia possibile cominciare a ragionare su una riforma dell’organizzazione del lavoro scolastico come quarta gamba del tavolo reale delle autonomie, perché non si può parlare di autonomia scolastica continuando a misurarsi con l’orario di diciotto ore. Si tratta di questioni fondamentali e al tempo stesso problematiche per la riflessione comune. Storicamente si può dire che la società italiana ha superato il giro di boa dello statalismo, ma in tante nicchie non ne è stata superata la percezione. Per cui non è possibile fermarsi a valutare le best practices, ma occorre mettere in campo un pensiero capace di rilanciare l’assetto architetturale del sistema delle autonomie funzionali.

Il Prof. Oliva sottolineando lo straordinario interesse del Rapporto e delle questioni emerse dal dibattito, evidenzia gli aspetti della ricerca che non lo trovano d’accordo. L’autonomia è una grande scelta politica che è stata fatta e che ha sostenitori convinti, sostenitori meno convinti e detrattori, per cui è una partita tutt’altro che vinta. Tale scelta si basa fondamentalmente sulla valutazione che il nostro paese è maturo per l’autonomia, che quindi i cittadini sono più avanti dello Stato e laddove si dà loro spazio lavorano, producono, migliorano. Si tratta in ultima analisi in una grande scelta di fiducia negli uomini. Da questo punto di vista ci sono però alcuni aspetti della ricerca che non convincono: quando si fa riferimento alla concezione non aziendalistica, ma culturale e comunitaria della scuola e si parla del dirigente come leader educativo e non come manager. Questa affermazione va ripensata e depurata di tutto il peso di battaglie ideologiche che le parole conservano. Si può anche non usare la parola manager, ma non bisogna ingannarsi, perché la scuola non è solo una comunità, nella scuola c’è un patrimonio edilizio da proteggere e manutenzionare, laboratori e attrezzature da conservare, insegnanti e personale non docente da gestire, controlli da effettuare, perché nessuna macchina di queste dimensioni si può pensare che vada avanti da sola. Questa realtà, dove si gestiscono ottanta mila miliardi, si continua a dire che non è un’azienda. Si può anche trovare una parola diversa, ma questa quantità di risorse pubbliche deve essere gestita con responsabilità da qualcuno che deve essere individuato con precisione, perché se sbaglia deve rispondere del suo operato. Non sarà allora un’azienda, ma ben può parlarsi di un’impresa educativa e il preside deve essere certo un leader educativo, ma anche il responsabile dei risultati. E’ sbagliato attribuire al preside, come fa il disegno di legge presentato in Parlamento, il ruolo di presidente del consiglio d’amministrazione, egli deve piuttosto essere controllato dal presidente. Gli organi collegiali dovrebbero controllare la realizzazione del Pof, controllare i conti, e in prospettiva futura, gestire il personale decidendone le assunzioni. Questa è la vera autonomia.

Il Prof. Luigi Compagna osserva che sull’autonomia scolastica vi sono tre tipi di pensieri: entusiasti, contrari ed moderatamente convinti. In questo rapporto lo stato d’animo più diffuso è di delusione e perplessità, si parla infatti di autonomia in mezzo al guado. Ciò riporta ad una antica discussione tra amici alla LUISS Guido Carli, in cui vi erano i ‘radicali dell’autonomia’ che vedevano l’autonomia come sentiero per sovvertire lo statalismo congenito; chi propendeva per una autonomia più moderata, quale passo per avviare le riforme necessarie nella transazione verso la scuola del nostro secolo; ed un pensiero liberale (non liberista) che aveva il senso della storia d’Italia, in cui la scuola è della società civile ed è dunque costruibile.

Il Ministero della Pubblica Istruzione non è stato solo un organismo burocratico e centralistico, ma ha dato anche dei grandi risultati. Vi sono stati ottimi dirigenti e provveditori agli studi, più di quanti non se ne siano avuti a seguito della l. 59/97, in cui passando ad una dimensione regionale ci sono stati sempre più politici e sempre meno dirigenti.

Il sentiero dell’autonomia, voluto dalla Bassanini, è sempre più in salita (perché si è rimasti attaccati a vecchi modelli).

E’ possibile che non si riesca a variare il modello del contratto unico? L’autonomia come sentiero riformatore non ha la capacità di incidere su tutti i nodi che si sono aggrovigliati, né sarà in grado di scioglierli la riforma Moratti.

Il Prof. Giampaolo D’Andrea ha sottolineato che il rapporto sulla scuola dell’autonomia è un lavoro pregevole. Si comprendono le ragioni del ritardo nell’attuazione dell’autonomia scolastica.

Di autonomia si parla già dall’inizio degli anni ’90 per liberare le energie positive che provengono dalla scuola. Sino ad oggi si era pensato che il problema dell’autonomia scolastica fosse una scelta acquisita dalla generalità degli interlocutori e che, semmai, si dovesse discutere dei cicli. Al contrario, si registra una grande perdita di attenzione (nelle discussioni politiche), non si parla più di scuola dell’autonomia. Se è vero che l’autonomia è una sfida culturale e non manageriale e che l’autonomia può avere successo se accompagnata da una consapevolezza che si sprigiona dal basso, le attuali spinte politiche finiscono invece per scoraggiare l’autonomia.

Si dovrebbero, pertanto, favorire delle politiche di diritto allo studio al fine di garantire i livelli minimi di servizio; le Regioni dovrebbero partecipare al dibattito e si dovrebbe l’edilizia scolastica, effettuando dei controlli di qualità sul personale docente e non docente.

Oggi cambiano i ruoli e le funzioni di tutti.

L’altro tema di questa tavola rotonda è la relazione con il territorio e l’impresa, questa relazione dovrebbe essere favorita dall’autonomia scolastica. Qui la scelta da effettuare è l’istituzione di consigli di amministrazione della Istituzione scolastica in quanto tale o Consigli di amministrazione che aiutino la Scuola a rapportarsi con il territorio.

Vi sono incertezze sulla costituzione di un Consiglio d’Istituto non riassuntivo del rapporto tra scuola e territorio. La questione del doppio canale finisce per irrigidire il rapporto tra formazione al lavoro e formazione allo studio. Occorre aprirsi verso l’esperienza del mondo del lavoro.

Savino Pezzotta interviene spiegando come CISL condivida l’esigenza di prendere sul serio la riforma dell’autonomia scolastica. Con il nuovo titolo V della Costituzione si avverte una grossa contraddizione che è l’aver assegnato alle Regioni una serie di competenze senza avere creato la camera delle regioni come punto politico di equilibrio. E’, però, contrario ad un predominio surrogatorio delle Regioni nella cultura e nella formazione sociale di base. Le riforme devono aprirsi alle esigenze del territorio, ma puntare anche su obiettivi comuni quali la riqualificazione delle strutture , la valorizzazione delle risorse umane.

Alla luce delle competenze legislative dell’art. 117 cost. si deve capire ciò che è competenza propria del territorio nazionale senza attentare all’unità del sistema ed al vincolo delle pari opportunità dei cittadini. Si tratta di effettuare adeguati interventi finanziari , rivedere gli organismi scolastici, esserci più responsabilità diretta da parte della scuola, più coinvolgimento del personale, ridefinendo diritti e doveri.

L’autonomia ha rischi e costi, deve riguardare gli addetti ai lavori, i genitori, le parti sociali, senza chiusure corporative o interventi punitivi. Non si devono avere tendenze egemonistiche.

Occorre che tutti i soggetti coinvolti abbiano una pari dignità partecipativa al progetto, in una costante pratica di concertazione e confronto tra parti sociali.

E’ l’incertezza che uccide l’autonomia ed in una stagione ricca di incertezze il rischio per l’autonomia scolastica è di vivere una posizione di stallo da una parte, mentre l’attivismo solitario di alcune regioni, dall’altra, ci spaventa. In tali condizioni è difficile parlare di aperture al territorio.

Occorre inaugurare una stagione di confronto e concertazione, ma il governo vuole parlare sui temi che riteniamo importanti (ci si riferisce all’obbligo scolastico sino ai 18 anni, alla formazione professionale).

Vi sono invece chiusure e resistenze: il confronto deve estendersi a tutti i soggetti. altrimenti la scuola diviene una bottega di un villaggio. Il policentrismo è necessario e vitale, ma deve avere delle regole: occorre rimettere mano all’opera di riforma del sistema salvando ciò che di buono c’era in passato.

Il Prof. Andrea Ranieri ha sottolineato che il rapporto in questione è un lavoro di grande pregio e valore. Non basta fare una legge perché le cose accadano, l’autonomia vive se la si fa vivere. Dall’esame dei risultati emerge che un 30% delle scuole campione ha messo in pratica tutto ciò che era stato proposto, e questo fa capire che si può fare e che si vuole fare. Vi è un filo che ha dato dei risultati e che va sviluppato. L’autonomia è dura perché significa assunzione di responsabilità da parte di chi non ha una cultura della responsabilità: essa nasce dalla scuola e questo rapporto lo evidenzia. In questo momento la riforma del titolo V può essere una grande occasione, ma anche un grande pericolo, infatti l’accordo tra stato e regioni potrebbe farla saltare.

Tra gli aspetti più critici vi è l’esigenza di chiarire come le variabili presentate vengano spiegate per ordini e tipi di scuola. Le cose vanno meglio nelle elementari e istituti tecnici e professionali. I dati rilevati sono dunque di grande importanza per cui occorre capire in quali scuole l’autonomia va meglio e perché.

Per Silvio Fortuna l’impresa per sopravvivere deve cambiare ed innovarsi. Solo negli ultimi cinquanta anni vi è nella società una velocità di cambiamento, cosa che non ha però interessato le istituzioni. Le scuole che vanno meglio sono quelle che praticano la gestione del personale (con riferimento alla selezione), l’offerta formativa, il raccordo col mondo esterno. Unendo orientamento e valutazione si da’ alle famiglie la possibilità di scegliere. Non ci si può concedere di rinviare oltre la risoluzione del problema. Il dibattito sul preside quale leader educativo o manager va avanti da molto tempo, tuttavia vi è una sorta di demonizzazione nel portare la cultura d’impresa all’interno della scuola, dove invece vi è un preside che deve gestire mezzi e persone. Occorre dare responsabilità alle persone, permettergli di selezionare e scegliere gli insegnanti, migliorando l’output dell’istituto. La cultura d’impresa deve essere condivisa. Inoltre è molto importante che vi sia un rapporto tra scuola e mondo del lavoro quale strumento per dare una migliore qualità formativa ai giovani.

Daniela Bolognino e Luca Castelli