Le autonomie locali nella riforma costituzionale e nei nuovi statuti regionali – Resoconto Convegno

30.05.2002

Le autonomie locali nella riforma costituzionale e nei nuovi statuti regionali

Comune di Ferrara – Università di Ferrara – SSPAL

Ferrara, 30 maggio 2002

(a cura di Daniela Bolognino, Luca Castelli e Rosalba Picerno)

Il Prof. Franco Pizzetti ha messo in luce come il rapporto tra Regione ed Enti locali tocchi in modo significativo anche l’attuazione della normativa comunitaria, dato che nella fase discendente hanno un ruolo anche gli Enti locali.Per questa ragione è stato suggerito che gli Statuti Regionali costruiscano un potere sostitutivo regionale nelle materie di competenza regionale in caso di inerzia degli enti locali: in tale ipotesi sarebbe inutile pensare ad un potere sositutivo del Governo.
Il Prof. Paolo Caretti ha sostenuto che una possibile linea interpretativa del nuovo Titolo V della Costituzione è che la costituzionalizzazione di certi istituti o poteri importa che questi ultimi, poi, escano dalla disponibilità del legislatore ordinario, il quale non è più libero di conformarli a proprio piacimento.
Di conseguenza, la potestà statutaria degli enti locali potrà essere esercitata interpretando le disposizioni del testo unico degli Enti Locali come vincolo solo di principio.
Ancora, la potestà regolamentare locale va concepita come una vera e propria riserva di competenza ed è generale con riferimento all’oggetto, in quanto non riguarda solo le funzioni attribuite.
Infine, la legge (statale o regionale) che attribuisce le funzioni non potrà contenere una disciplina tanto dettagliata da degradare il regolamento locale e fonte meramente minuta o esaustiva o addirittura opzionale.
La Prof.ssa Rossana Tosi sottolinea come il tema oggetto della sua relazione ‘Fonti regionali e fonti locali’, abbia molti nessi con quello affrontato dal prof. Caretti, della cui relazione  condivide in pieno il punto di vista interpretativo. L’argomento viene affrontato distinguendo in relazione al diverso potere normativo che è attribuito agli enti locali, perché dal Titolo V si possono distinguere due differenti tipologie di potere normativo locale:  quello in tema di organizzazione e azione generale, esercitabile con gli statuti e i regolamenti; un secondo potere normativo, strumentale all’esercizio delle singole funzioni amministrative. Si tratta di tipi di potere molto diversi tra loro e che perciò intrattengono relazioni molto diverse sia con la legge statale che con quella regionale. In riferimento alla seconda tipologia di potere normativo, quello attribuito agli enti locali in relazione all’esercizio delle singole funzioni amministrative, non vi è una attribuzione per materia, ma una attribuzione che è strumentale all’esercizio delle funzioni stesse. Secondo una tesi recentemente elaborata da Falcon, che la Tosi condivide, quando si parla di funzioni attribuite si deve intendere quelle che l’ente esercita a qualsiasi titolo, nel senso che il regime delle funzioni non si diversifica in attribuite, conferite, proprie ecc…, la differenza consistendo invece nella fonte competente ad assegnarle. Il rapporto di strumentalità tra potere normativo e funzione attribuita ha una serie di implicazioni: la prima è che l’estensione orizzontale di questo potere è determinata dalla fonte competente ad attribuire le funzioni. Siccome un potere normativo parente è collegato alle funzioni amministrative, segue il conferimento delle funzioni stesse, il che sul piano del rapporto con la legge regionale nelle materie regionali porta a qualche complicazione in più, perché in tali materie il conferimento delle funzioni agli enti locali è fatto non solo dalla legge regionale ex art. 118, comma 2, ma anche da legge statale ex art. 117, comma 2, lett. P, e/o ai sensi della competenza di principio che lo Stato ha nelle materie di legislazione concorrente. Su questo secondo versante gli interpreti dovranno scegliere se lo Stato possa attribuire funzioni amministrative agli enti locali nelle materie regionali in virtù dell’uno o dell’altro titolo di competenza, perché si può utilizzare la legislazione di principio per conferire funzioni solo se la materia ‘funzioni fondamentali’ è vista come attribuzioni di compiti più che di funzioni in senso tecnico.
La seconda implicazione è che nell’art. 117, comma 6, si parla di una potestà regolamentare delle regioni nelle materie di loro competenza e accanto a ciò è attribuita per le singole funzioni la potestà regolamentare agli enti locali. Come si può combinare questo diverso modo di esprimersi? Per la Tosi l’attribuzione di potere regolamentare alle regioni per materia va riferita alla relazione con lo Stato, è cioè una regola di riparto di potere regolamentare che vale nelle relazioni Stato- regione, non in quelle regione- enti locali. La regione cioè non mantiene intatto un potere regolamentare in tutte le materie di sua competenza: lì dove esiste un conferimento di funzioni amministrative ai livelli locali, la regione perderà spicchi di potere regolamentare. Detto in latri termini, tra regolamento regionale e regolamento locale vale il criterio della separazione, nel senso che i primi non possono sovrapporsi ai secondi. Una regola di questo tipo va scritta negli statuti regionali.
La terza implicazione riguarda il riparto verticale tra fonte regionale e regolamento dell’ente locale, fonte regionale che può essere solo la legge, mentre il regolamento regionale è tagliato fuori dalla ricostruzione della Tosi. In questa ricostruzione il riparto verticale, di fronte ad un potere regolamentare che è relativo all’esercizio della funzione, non si giova tanto di una distinzione per tipi di disciplina (principio/dettaglio), ma si può descrivere meglio in altri modi: la legge regionale disciplina le funzioni istituendo poteri pubblici e obblighi di prestazione, gli enti locali le concrete modalità operative della singola funzione, il che potrebbe essere detto affermando che esiste una presunzione relativa di competenza dei regolamenti locali in riferimento agli aspetti organizzativi e procedimentali riguardanti le funzioni attribuite, presunzione destinata tuttavia a cedere di fronte a giustificate ragioni. Tali ragioni non sono individuabili in un contesto prestabilito, per cui la prof. sa si limita a fornire delle indicazioni generali sul terreno in cui esse possono muoversi. La prima di queste ragioni è l’esigenza di coordinamento: la legge regionale cioè, nel momento in cui definisce la funzione, potrà anche prevedere nulla osta, pareri ecc.. da imporre in via legislativa all’ente titolare della funzione, ai fini del suo esercizio. La stessa disciplina sostanziale di una funzione potrebbe metterne fuori gioco certe modalità organizzative. Infine ci sono discipline organizzative e procedimentali che si propongono e realizzano un obiettivo relativo ai modi di tutela degli interessi sostanziali nel settore affidato alla cura del legislatore regionale. Es: lo sportello unico. Non c’è dubbio che in questo caso venga meno la competenza legislativa dello Stato, ma per la Tosi è impossibile pensare che possa intervenire il regolamento dell’ente locale senza l’interposizione della legge regionale, che in queste ipotesi troverà una giustificata ragione per intervenire proprio perché sono in gioco gli interessi sostanziali dei vari settori.
Su questa tipologia di regolamenti la Tosi ritiene che essi potrebbero essere oggetto di disciplina regionale, in riferimento, ad esempio, al problema della loro conoscibilità. Se la prof. sa è incerta sul fatto che la fonte regionale possa porre regole riguardanti lo strumento regolamentare in generale, in questo caso, visto che il regolamento è inerente alla funzione amministrativa e che questa è dentro la materia di competenza regionale, non ci sono dubbi sul fatto che le regole relative alla conoscibilità dei regolamenti possano essere imposte dalla regione, attraverso leggi di settore.
Il secondo versante è quello dell’organizzazione generale. Qui vi è un’attribuzione di competenza all’ente locale che vale per materia, solo che su questa materia insistono oggi due diverse fonti legislative: la legge dello Stato per l’organizzazione politica; la legge regionale per l’organizzazione amministrativa. La Tosi avrebbe preferito una soluzione simile a quella delle regioni speciali perché avrebbe consentito di non tagliere in due una materia. Certo questo problema si pone: ad esempio, la dirigenza dove va inserita? La Tosi ritiene che vada inserita da entrambe le parti, ma in particolare si occupa solo dell’organizzazione amministrativa, perché è qui che vi è concorrenza tra legge regionale e fonti locali. Proprio perché l’attribuzione è per materia si può ragionare in termini di intervento di principio per la fonte legislativa regionale e di dettaglio per la fonte locale. La prof. sa afferma ciò con la consapevolezza che ci sono dei modi diversi di leggere l’art. 97 Cost., perché alcuni interpretano tale disposizione ritenendo che la riserva di legge in materia di uffici valga soltanto nei rapporti tra Parlamento e Governo. Questa lettura non è condivisa dalla Tosi che, ben consapevole che ogni riserva abbia una sua ratio, ritiene tuttavia che ve ne sia una che le accomuna tutte e che consiste nel consentire alla Corte di pronunciarsi sulla disciplina su cui la riserva insiste, per cui leggere il 97 in quell’ottica significa ammettere l’esistenza di un larga fascia di discipline sottratte al controllo di costituzionalità. Cosa allora dovrebbe fare la legge regionale? Dovrebbe dare le regole per realizzare nell’ordinamento i principi dell’art. 97. Es: tema dei segretari comunali e provinciali. Su questo aspetto la legge statale ha perso completamente la propria competenza, ma non è pensabile l’intervento della sola fonte locale senza l’intermediazione della legge regionale, perché i segretario sono lo strumento per garantire la legalità dell’azione amministrativa.
Il Prof. Giovanni Pitruzzella affronta il tema oggetto della sua relazione “Su alcuni nodi della finanza locale” sottolineando come si tratti di uno degli argomenti più complessi e più caldi del nuovo assetto costituzionale. Già all’origine storica dell’esplosione della questione federale in Italia negli ultimi anni, vi è stato un problema di ripartizione delle risorse fra le diverse aree del paese: la prima forte spinta verso un assetto federale deriva proprio da presunte sperequazioni che c’erano nella ripartizione delle risorse fra le varie regioni. Accanto a questa motivazione c’è quella più antica per cui l’autonomia finanziaria sul versante dell’entrata e della spesa è l’altra faccia dell’autonomia politica: non è possibile elaborare delle proprie politiche pubbliche se non si dispone di risorse adeguate per realizzarle. Lo stesso trasferimento di funzioni e compiti amministrativi dallo Stato alle regioni e poi agli enti locali attuato con le leggi Bassanini ha avuto il suo banco di prova nell’attribuzione delle risorse a copertura delle nuove competenze.
Molto si è già scritto sulle innovazioni introdotte col nuovo 119, ma il prof. evidenzia come sia abbastanza diffusa l’opinione per cui tale articolo abbia un contenuto effettivamente innovativo, anche se poi lascia irrisolti gran parte dei problemi che avrebbe dovuto affrontare. L’innovazione maggiore sta nell’individuazione del carattere territoriale del tributo e nell’attribuzione a Comuni, Province, Città metropolitane e Regioni di un’autonomia finanziaria che comporta il godimento di risorse autonome: in questo senso devono infatti avere tributi propri, ma anche compartecipazione al gettito di tributi erariali riferibili al territorio. Il secondo elemento innovativo è la previsione di un fondo perequativo che rimane agganciato esclusivamente alla capacità fiscale per abitante, ma l’aspetto che permea tutta la riforma è l’equiparazione tra i diversi enti territoriali: l’autonomia finanziaria d’entrata e di spesa con la previsione di tributi propri e della compartecipazione al gettito di quelli erariali, è prevista per Comuni, Province, Città metropolitane e Regioni.
Di fronte a questo quadro richiamato per grandi linee, il prof. segnala tre problemi: il primo è quello della disciplina dei tributi locali, nel senso dell’individuazione della fonte competente a disciplinarli. Certamente non è immaginabile una disciplina da parte dell’ente locale, stante la riserva di legge dell’art. 23 Cost. Tuttavia una volta premesso che è necessaria la fonte legislativa si pone il problema di quale questa debba essere, fonte statale o regionale, e , a valle, di quale grado di autonomia la legge statale o quella regionale debbano riservare al momento dispositivo da parte dell’ente locale. Con riguardo a quest’ultimo profilo, la legislazione degli ultimi anni ha sviluppato il momento dell’autonoma determinazione degli enti locali in ordine ad aspetti importanti della disciplina del tributo come quello delle aliquote o quello delle detrazioni. Tuttavia sulla strada di un ulteriore allargamento della potestà decisionale del singolo ente locale in materia di gestione dei tributi locali, si pongono alcune difficoltà che il legislatore statale e quello regionale dovranno affrontare. La prima è data dal pericolo di un eccesso di competitività fiscale tra territori contigui; la seconda, recentemente ricordata da Giarda, è rappresentata dal fatto che un eccessivo allargamento dei poteri di manovra degli enti locali in tale materia ha delle implicazioni negative in ordine ai meccanismi di perequazione, perché il gettito tributario locale non sarebbe più un buon indicatore della capacità fiscale per abitante, che è l’elemento cui viene abbinato il meccanismo perequativo. Sul problema dell’individuazione della fonte competente a disciplinare il tributo locale, va segnalato che già emerge, non solo nel dibattito dottrinale, ma nella prassi, la riproposizione di quegli atteggiamenti che ci sono in ordine alla complessiva lettura della riforma costituzionale. Da una parte un atteggiamento incline a sottolineare gli elementi di separazione tra le diverse sfere di attribuzione, quindi un sistema in cui sia nettamente definito ciò che fa lo Stato e ciò che fanno le regioni. Dall’altro lato coloro che pongono l’accento su forme di integrazione tra sistemi normativi. Con riferimento alla prima prospettiva si può citare il ricorse della regione Basilicata contro alcune norme della Finanziaria 2002 che incidono su aspetti del regime di alcuni tributi locali (imposta sulle insegna pubblicitarie). La tesi della regione si basa sul rilievo per cui la materia “sistema tributario degli enti locali” non rientra tra quelle di competenza esclusiva dello Stato, quindi si tratta di competenza residuale ai sensi dell’art. 117, comma 4, per cui lo Stato può intervenire solo in ordine al coordinamento tra sistemi tributari e attraverso la definizione dei principi fondamentali. Da qui la presunta incostituzionalità di tale norma (il ricorso è redatto da Luciani). Questa opinione è fortemente contestata da chi ritiene al contrario che il coordinamento da parte del legislatore statale sia qualcosa di più della definizione dei singoli principi fondamentali e fa riferimento al fatto che la legge Finanziaria è nel sistema il principale strumento di coordinamento (cfr. in particolare De Mita). Queste posizioni esprimono la grandissima difficoltà, in materia tributaria, di addivenire a soluzioni nette e richiamano invece la necessità di trovare delle forme di contrattazione tra i vari livelli di governo, proprio perché la materia finanziaria è quella su cui si giocherà maggiormente il rapporto tra principio di differenziazione e principio di solidarietà, fino a che misura cioè la differenziazione potrà spingersi senza mettere in gioco le ragioni dell’unità nazionale.
Un altro profilo riguarda il rilievo per cui i tributi hanno conseguenze giuridiche che non riguardano solo la materia tributaria: è il caso del tributo sui gasdotti introdotto dal legislatore siciliano. A questa iniziativa ha peraltro fatto seguito la presentazione di un disegno di legge da parte di alcuni consiglieri della regione Friuli che prevede meccanismi analoghi riguardo al gasdotto che importa metano russo. Tutto ciò ha dato luogo a delle critiche da parte dell’Autorità per l’energia elettrica e il gas e si è posto il problema della incidenza di questa normativa sui processi di liberalizzazione dei servizi pubblici che sono richiesti da direttive europee.
Anche la vicenda dei tributi locali evoca un problema centrale: la creazione di numerosi centri di produzione di regole che vanno a riguardare aspetti fondamentali della vita economica, può infatti creare una notevole frammentazione del mercato. Questo tema andrebbe studiato dai giuristi anche alla luce del fatto che la tutela della concorrenza è competenza esclusiva dello Stato. Altro tema di particolare attualità è la definizione del fondo perequativo: nella individuazione della minore capacità fiscale per abitante bisogna far riferimento al territorio regionale, con la conseguenza che la perequazione andrà fatta nei confronti della regione e sarà essa competente ad operare al suo interno meccanismi di riequilibrio tra i territori, oppure occorrerà tener conto della diversa capacità fiscale riferita a tutti i livelli territoriali di governo? Qualora si dovesse propendere per la prima soluzione ci sarebbe l’espansione del ruolo della regione in ordine ai meccanismi di riequilibrio interno. Ulteriore problema a questo connesso è rappresentato dal fatto che l’intera riforma costituzionale, in ordine ai meccanismi di riequilibrio, si affida solamente al legislatore nazionale e quindi alle transitorie maggioranza politiche, e inoltre non sono stati stabiliti criteri precisi sulle cui basi operare il riequilibrio, soprattutto in riferimento alla delicata questione della determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni riguardanti i diritti civili e sociali.
Il Prof. Marco Cammelli ha poi evidenziato come il dato che emerge dal Titolo V è di  “necessaria diversità”, il che fa sì che se si dovesse riscrivere il titolo della sua relazione esso diventerebbe, non “l’amministrazione regionale e gli enti locali”, ma “il sistema amministrativo locale e la regione”,  perché il punto di organizzazione e di riordinamento del sistema nasce dall’organizzazione del tessuto locale. La Regione, infatti, non ha in sé competenze amministrative necessarie se non che quelle che risulteranno necessariamente da allocare a questo livello perché non esercitabili congruamente a livello locale.
I processi messi in atto (per le modifiche costituzionali sono) processi  che possono essere lunghi, sicché è bene che le regole siano chiare,  non possiamo avere regole confuse e processi lunghi.
L’accezione di  amministrazione fornitaci dalla Professoressa Tosi,  è condivisibile solo in parte e andrebbero fatte delle precisazioni.  L’autonomia organizzativa può essere considerata come un altro dei principi chiave del Titolo V,  che radica l’autonomia organizzativa in capo al titolare delle  funzioni, il quale ha  anche l’autonomia necessaria per organizzarlo. Il dato fondamentale è che il potere organizzativo è un potere che accede al titolare delle funzioni.
Ciò emerge da vari punti,  infatti le potestà statali sono potestà eccezionali sul sistema locale, in deroga al principio  dell’autonomia amministrativa statutaria. Le funzioni fissate dallo Stato vanno lette  in modo restrittivo e sono una eccezione rispetto alla regola, e riguardano  la forma di governo ed alcune funzioni fondamentali, ma da questo non si trae l’organizzazione, ma solo il suo zoccolo duro.
Dove c’è amministrazione vi è anche una potestà normativa che accede all’amministrazione, si pensi alla soluzione del Titolo V sulla potestà regolamentare nella potestà legislativa concorrente.
Il modello organizzativo accede alle funzioni, le quali variano al variare dell’art. 118, comma 1 e 2, cost., ne deriva, che  tale modello organizzativo non può che essere definito dal diverso  e da colui che ne è titolare e non è definibile dall’esterno.
L’organizzazione amministrativa regionale va pensata ricostruendo il sistema amministrativo dal basso secondo il principio di sussidiarietà. Fatto questo a livello locale so cosa  rimane ai livelli superiori,   la gestione diretta diviene dunque un momento eccezionale.
La regione deve assicurare la rappresentanza all’esterno, deve essere il momento di equilibrio e di integrazione fra i settori,  gestione diretta di servizi e delle funzioni non direttamente allocabili.
In tale contesto il personale va interamente ripensato e va ripensata anche le dirigenza.
L’esperienza che stiamo vivendo quest’anno fa sì che per l’amministrazione vi sia un processo decisionale a rete, in cui nessuno fa le cose da solo, le attività materiali oggi sono esternalizzate, ed in fine, con riferimento alla relazione con i cittadini occorre uno sportello come punto fermo.
La P rof.ssa Lorenza Violini sottolinea come con il nuovo titolo V della Costituzione si sono poste le condizioni per inserire il consiglio delle autonomie dalla dimensione amministrativa alla dimensione di governo delle regioni, in modo che quest’organo diventi da organo di raccordo, ad organo di rappresentanza istituzionale di enti ontologicamente di natura costituzionale. In concreto  per quanto riguarda la configurazione di quest’organo vi sono dei fattori di novità. Infatti il consiglio può considerarsi come organo di consultazione tra regioni ed enti locali, toccando tutta l’attività delle regioni, da quella statutaria, all’attività legislativa, all’attività di diritto politico, all’attività amministrativa ed a quella giurisdizionale (contenzioso costituzionale  tra stato e regioni, procedure di contenzioso statutario). In potenza  vi è una ampiezza di intervento, toccherà poi allo statuto tradurre in atto questa potenzialità di intervento. L’art. 123 apre una porta e sarà bene che gli statuti  non la chiudano.
In tale situazione si possa desumere che la consultazione deve avvenire tra  livelli di governo e non, all’interno  dell’organo stesso. Questo è importante perché se così non fosse non ci sarebbe bisogno di una costituzionalizzazione, sarebbe stata sufficiente l’attività normativa pregressa.
Il consiglio delle autonomie non deve avere una composizione mista, ma deve essere riservato alla rappresentanza istituzionale degli enti locali.
Sempre sulla composizione sembra che la costituzione tenda ad escludere altri organi quali le associazioni di categoria e le autonomie funzionali, limitando la rappresentanza agli enti locali per il consiglio delle autonomie.
Non si può pensare di determinare tramite la Costituzione la reale consistenza del consiglio delle autonomie, per il quale si potrebbe immaginare una composizione forte che faccia da contrappeso ad una assetto di poteri essenzialmente deboli. Ovviamente  non è detto che questi poteri deboli non possano essere rinforzati attraverso lo statuto che può prevedere forme di rafforzamento degli stessi.
Certamente valorizzare gli esecutivi ha qualche svantaggio perché lascia un po’ in ombra gli organi elettivi degli enti locali, si potrebbe allora pensare a qualche obbligo di informazione, di comunicazione che proviene dall’assemblea legislativa rispetto al consiglio delle autonomie ( tutto ciò attraverso  la scelta statutaria degli enti locali.). Il numero dei componenti del consiglio delle autonomie non può essere molto ampio, ma deve rappresentare  tutti dunque i comuni devono pensare a forme di aggregazione.
Sembra importante citare una tendenza che si è sviluppata, cioè quella di  considerare il consiglio delle autonomie una seconda camera in fieri. Questo modello è interessante, ma si potrebbe delineare un modello in parte alternativo a questo. Sembra, infatti, che la Costituzione non imponga il consiglio delle autonomie  come organo che affianchi anche fisicamente un altro organo regionale,  non si può pensare a questo organo come una seconda camera, di cui non avrebbe neanche i poteri, ma come un organo autonomo, con una propria autonomia finanziaria che divenga una rappresentanza permanente degli enti locali presso la regione (si parla infatti di organo di consultazione tra regione ed enti locali).
In fine va aggunto che questo consiglio è stato visto come una forma di risarcimento per la scelta di valorizzare le regioni rispetto al controllo degli enti locali.  Per altro è un risarcimento parziale perché i poteri della regione  sono poteri effettivi ed i poteri del consiglio restano poteri marginali ed anche se cerchiamo di costruirlo come un organo forte e di dargli una sua posizione istituzionale siamo di fronte ad un risarcimento parzialmente iniquo.
Il Prof. Roberto Bin ha messo in luce che l’introduzione del Consiglio delle autonomie locali nella riforma del Titolo V della Costituzione aveva come obiettivo quello di dare una quadratura al problema di come rendere effettiva la sussidiarietà (quella che Marco Cammelli ha denominato “amministrazione a rete”, “amministrazione partecipata o integrata”): il problema, però, non è stato risolto perché la Camera delle autonomie è diventata un’ulteriore complicazione dato che l’esperienza di consigli delle autonomie di alcune regioni, ha dimostrato come essi siano organi estremamente complessi, dove non è chiaro “chi rappresenta che cosa”, dove le alchimie di composizione sono complicate e dove non tutti si sentono rappresentati. Essi finiscono per essere non l’assemblea in cui si rappresentano gli enti locali come interlocutori della regione, ma il luogo in cui si confrontano tra loro gli enti locali mentre la regione procede autonomamente.
Prima di disegnare degli statuti con il meccanismo della sussidiarietà, sarebbe bene pensare cosa è deputata a fare la Camera delle autonomie, quali sono le decisioni in cui essa è rappresentativa di qualcosa: probabilmente si vedrà che essa rappresenta gli stessi interessi dell’ANCI e dell’UPI, cioè degli enti presi come categoria e non come rappresentanza dei territori; se così fosse, invece, la camera presenterebbe tutte le contraddizioni che i territori hanno in una regione e farebbe “concorrenza” al Consiglio regionale, al quale spetta appunto la rappresentanza del territorio. La situazione è difficile perché se le si lasciano poche competenze diventa inutile e man mano che si aumentano le competenze diventa ingestibile e in conflitto col Consiglio regionale.
Si potrebbe pensare a un parere, anche forte, del Consiglio delle autonomie sulle leggi ordinamentali, sulla legge finanziaria, su provvedimenti che guardano agli interessi nella loro contestualità perché è in questi casi che gli enti locali hanno bisogno di controllare che la regione non espanda i suoi meccanismi di competenza; non si potrebbe, invece, pensare a un suo coinvolgimento in interventi localizzati: questo problema, comunque, può trovare risposte negli statuti regionali, in quanto strumenti per rispondere a questioni strategiche per la regione.
Cosa, poi, si potrebbe immaginare in più per tradurre la sussidiarietà in una serie di regole, istituzioni e risposte? Oggi si poneva il problema del coordinamento fra normativa regionale e locale: a tale proposito, andrebbe innanzitutto rispettata e valorizzata l’autonomia statutaria e regolamentare dei comuni; la regione deve fare un passo indietro nella propria normazione, lasciando a degli enti che sono politicamente responsabili, la possibilità di organizzare l’amministrazione e le procedure per svolgere la propria attività.
Bisogna, quindi, stabilire dove “cedono” le norme regionali, ponendo, ad esempio, la regola secondo la quale tutte le norme legislative e regolamentari vigenti e future delle regioni che riguardano l’organizzazione e le procedure, sono cedevoli e suppletive rispetto alla regolamentazione locale (tale modello potrebbe essere anche esteso ai rapporti stato-regioni).
Tale regola andrebbe completata, perché non tutto può essere “sostituito”: ove la legge regionale individua interessi pubblici che nel procedimento vanno tenuti presenti, essi devono restare un vincolo. Molto importante è anche un altro tipo di integrazione e coordinamento, che non è sul piano della legislazione ma della programmazione, che è un materia che gli statuti devono affrontare (i poteri di indirizzo del Consiglio nei confronti della Giunta, i poteri di approvazione dei programmi), coniugando la soluzione del problema dei rapporti tra Giunta e Consiglio con il problema dei rapporti tra regioni ed enti locali, perché le questioni sono intrecciate.
Lo Statuto, affidando alla legge la disciplina delle procedure, dovrebbe stabilire innanzitutto cosa si intende per “programmi”, chiarendo così il rapporto tra Giunta e Consiglio: invece di andare a specificare le competenze del Consiglio, bisognerebbe dare incentivi reali al presidente della giunta perché vada in Consiglio a discutere sui programmi in quanto essi sono delle grosse vie d’intervento, consistenti investimenti finanziari che devono essere discusse in Consiglio.
In tema di programmi, lo Statuto dovrebbe porre una serie di restrizioni ai poteri di verifica, conoscenza e controllo di tutto il percorso della politica pubblica da parte del Consiglio ma anche una norma che riguarda la loro gestione: l’Emilia Romagna ha un’esperienza di piani territoriali, di programmazione negoziata che è interessante, cioè un possibile modello di organizzazione dell’integrazione tra l’amministrazione regionale e quella degli enti locali, anche se questo spesso si scontra con l’organizzazione amministrativa della regione. I piani territoriali possono essere decisi e gestiti, dalla regione, in modo integrato: non solo cioè ci può essere un Consiglio delle autonomie ma anche un comitato esecutivo che seguano in maniera coordinata i programmi; non solo, ma nei casi in cui tali programmi riguardino una serie di comuni, l’amministrazione regionale può essere “guidata” da qualcuno che non appartiene all’amministrazione regionale ma che è nominato (anche tra i sindaci coinvolti) dal presidente della Giunta e diventa il commissario di quel programma, con poteri di coordinamento.
La programmazione è anzitutto programmazione finanziaria ma da nessuna bozza di statuto emerge il fatto che i bilanci riguardano la forma di governo (mentre l’esperienza storica delle forme di governo della Costituzione è legata proprio ai bilanci: è da qui che nasce l’idea della separazione di poteri e della forma di governo), che sono uno strumento di governo: invece sarebbe fondamentale che lo Statuto affrontasse questo tema (senza diventare una legge di contabilità) ponendo dei fondamenti sui quali la legge di contabilità possa formarsi.
Andrebbe affrontato il problema di cosa sia la programmazione pluriennale, perché essa ha conseguenza sul bilancio annuale e garantisce la sicurezza finanziaria agli enti locali: questi sono problemi di integrazione.
Non bisogna dimenticare, infatti, che le regioni hanno potestà legislativa concorrente in tema di bilanci e contabilità ed è su questo che esse dovrebbero cominciare ad essere “innovative” (come lo sono state negli anni ’70 quando hanno anticipato la riforma della contabilità regionale e poi di quella statale): in questo momento, per essere nuovamente propositivi, bisognerebbe fare di questo uno dei pilastri effettivi della forma di governo e del sistema amministrativo.
Il Prof. Alfredo Corpaci ha sottolineato come il tema dell’autonomia organizzativa incroci quello delle fonti, in primo luogo quello della potestà statutaria di comuni e province.
La questione del valore e della collocazione, nel sistema delle fonti, della potestà statutaria è una questione centrale perché dal valore e dalla collocazione che prospettiamo per la fonte statutaria, dipende la dislocazione dei poteri in ordine alle materie in questione, tra stato regioni ed enti locali.
La questione del valore della fonte statutaria è problematica perché la Costituzione, per quanto riguarda comuni e province, si limita a dire (art. 114) che sono enti autonomi, con propri statuti, poteri e funzioni, secondo i principi fissati dalla Costituzione ma non aggiunge nulla in merito agli statuti e ai loro contenuti, modalità di approvazione e modificazione, controllo e sindacato; se ne deve dedurre che, al di là del fondamento costituzionale che ha la potestà statutaria di comuni e province, la definizione degli altri profili (contenuti, modalità di approvazione etc.) siano rimessi al legislatore ordinario? E a quale? A quello statale o regionale? Ci sono valide obiezioni opponibili alla tesi che rimette alla legge, quale che sia il legislatore, la conformazione della potestà statutaria di comuni e province: il secondo comma dell’articolo 114 nomina partitamente statuti, poteri e funzioni quali elementi connotativi della condizione di autonomia e puntualizza che la conformazione di questi tre elementi è data dai principi fissati dalla Costituzione.
A questo punto, si potrebbe dire che in Costituzione non ci sono principi e regole sulla potestà statutaria ma solo sui poteri e sulle funzioni (c’è l’art. 117 che regola il potere legislativo, l’art. 118 che detta i principi per le funzioni amministrative, l’art. 119 che detta i principi in materia di potestà impositiva) ma da questo dato non si può trarre la conseguenza che questi aspetti siano rimessi alla legge ordinaria; anzi, è più coerente con il dettato costituzionale cercare di risolvere in via interpretativa il problema, cioè trovare i principi nella stessa Costituzione, ragionando per analogia con l’art. 123 della Costituzione, con tutti gli adattamenti necessari per coordinare tutto con la complessiva disciplina costituzionale. E’ più azzardato l’orientamento che rinuncia a ricavare in via interpretativa dalla Costituzione ciò che il testo costituzionale vuole che sia conformato dalla Costituzione stessa e rinvia questi principi alla legge: è confliggente non solo in termini letterali e formali rispetto al testo dell’art. 114, comma 2, ma anche in termini sostanziali perché tale rinuncia a rinvenire in Costituzione i dati determinativi di natura, posizione e contenuti degli statuti di comuni e province, finisce col lasciare al legislatore ordinario spazi di discrezionalità molto ampi e difficilmente sindacabili e finisce per porre la potestà statutaria in una condizione deteriore rispetto a quella regolamentare, i cui principi sono sanciti dall’art. 117.
Si potrebbe dire che, per analogia con quanto previsto dall’art. 123, gli statuti di Comuni e province costituiscono la fonte deputata a determinare, in armonia con la Costituzione, la forma di governo e i principi fondamentali di organizzazione e funzionamento degli enti locali: questi sono i contenuti propri della fonte statutaria. L’armonia con la Costituzione, per quanto riguarda gli enti locali comprende la soggezione ai vincoli che la Costituzione pone per quanto riguarda specificamente gli enti locali e tra essi si ascrive la devoluzione al legislatore statale della competenza legislativa in materia di legislazione elettorale, organi di governo e funzioni fondamentali di comuni e province. L’interpretazione di questa formula è essenziale per capire quali sono gli spazi dell’autonomia statutaria e le posizioni in materia sono varie: secondo una di queste, le funzioni fondamentali non sono solo le funzioni amministrative ma la locuzione si riferisce all’attività complessiva dell’ente locale e riguarda non solo l’individuazione delle funzioni ma anche la disciplina di queste. Poi, mette in collegamento queste con gli altri due oggetti della competenza legislativa statele (organi di governo e legislazione elettorale) e arriva a dire che allo Stato compete la disciplina dell’ordinamento istituzionale degli enti locali, come se nulla fosse cambiato. Tale interpretazione, però, non sembra condivisibile perché da un significato improprio al termine ‘funzione’ e risulta in contrasto con il dato testuale che ha voluto restringere gli oggetti della potestà legislativa statale a quei tre individuati.
La locuzione ‘organi di governo’ è una locuzione inequivoca, individua con chiarezza l’oggetto solo gli organi preposti al governo (Consiglio, Giunta e Sindaco). Anche il Testo unico sugli enti locali va interpretato alla luce della riforma costituzionale e va interpretato nel senso che esso vincola la potestà statutaria degli enti locali solo per i principi che essa pone espressamente o che sono da essa desumibili.
Per quanto riguarda la figura del sindaco quale ufficiale del governo, data la riforma costituzionale, oggi non è più possibile ricostruire la figura del sindaco come organo dello Stato che si avvale di uffici del Comune: oggi si può ricostruire tale figura come organo del Comune che esercita funzioni assegnate al Comune.
Sull’autonomia organizzativa dell’ente locale, se si dice che i principi fondamentali di organizzazione sono un contenuto proprio dello Statuto allora va detto anche che non operano nemmeno i vincoli derivanti dalla legge statale, ma opera una riserva di fonte statutaria il che significa che già da subito i Comuni e le Province possono, esercitando la potestà statutaria, rompere i vincoli che non si giustificano più e che derivano, ad esempio, dalla previsione d’ufficio del Segretario Comunale, del suo status, della dirigenza etc.
Non pesa neppure la legge regionale, ex articolo 117, quarto comma, Cost.: la Costituzione pone una riserva di potestà statutaria e quindi tra la legge regionale e potestà regolamentare locale c’è la fonte statutaria, ad eccezione degli oggetti che la Costituzione rimette alla fonte legislativa (art. 117, comma 2, lettera p).
Se si ricostruisce la fonte statutaria, la sua essenza e i suoi contenuti, al di là della qualificazione formale dell’atto (che sarà la legge regionale per quanto riguarda lo Statuto della regione e sarà una deliberazione dell’ente locale per quanto riguarda i Comuni e le Province), lo Statuto locale, in quanto atto che è deputato a dettare una disciplina primaria di oggetti definiti dalla Costituzione, può essere soggetto al controllo della Corte costituzionale, mentre non sarebbe coerente ipotizzare il sindacato del giudice amministrativo.
Nella relazioni dei sintesi, il Prof. Gian Domenico Falcon ha poi messo in luce come le opinioni diverse sulla modifica del Titolo V della parte seconda della Costituzione danno conto della complessità dell’innovazione e della pluralità di letture.
Il cenno all’Europa e ai vincoli dell’Unione Europea dell’art. 117. comma 1, non è assimilabile ai vincoli derivanti dagli obblighi internazionali: il richiamo all’Unione Europea è importante perché è un richiamo “aperto”, ad una istituzione dinamica, con le sue regole e il suo sviluppo, e non può essere ‘appiattito’ come una ripetizione del richiamo agli obblighi internazionali.
Sul tema dei rapporti tra legge statale e legge regionale e autonomia normativa e amministrativa degli enti locali, c’è da dire che la legge regionale, che ha la potestà residuale, in realtà disciplina soltanto l’azione e l’organizzazione amministrativa perché l’ordinamento civile, penale e processuale sono riservati allo Stato. Una volta detto ciò, bisogna pur dare alla legge regionale il suo oggetto: essa, infatti, non può limitarsi a disciplinare i principi. Nelle materie concorrenti, ad esempio, è lo Stato che detta i principi, non ha senso dire che deve occuparsene la legge regionale. Questa idea non ha fondamento giuridico né fondamento logico.
Non si può neanche affermare che esista una riserva di competenza regolamentare a favore di Comuni e le Province per l’azione e l’organizzazione: l’art. 117 è destinato al riparto delle potestà legislative tra Stato e Regioni; in ogni caso, la legge statale e quella regionale devono rispettare i principi costituzionali che ne regolano l’esercizio, tra cui il principio di autonomia degli enti locali e quello di sussidiarietà.
Non c’è una riserva di competenza ma certamente, perché la Regione (o lo Stato nell’ambito della sua potestà legislativa) possa intervenire occorre una giustificazione sul piano del principio di sussidiarietà, che può essere tanto più difficile da raggiungere quanto più la tematica è in grado di coinvolgere solo interessi locali.
Il sistema derivante dalle modifiche al Titolo V della Costituzione è sempre più complesso: perché funzioni ha bisogno di strumenti di raccordo anche per capire, con riguardo alle materie di legislazione concorrente qual è il ruolo dello Stato e quello delle Regioni.
Oggi tali meccanismi non ci sono, quelli che ci sono, sono in fieri e si possono sostituire con le Conferenze, con i Protocolli d’intesa etc.

Daniela Bolognino, Luca Castelli e Rosalba Picerno