Il nuovo Welfare State dopo la riforma del Titolo V. Sanità e assistenza a confronto – Resoconto Convegno

28.05.2002

Roma, 17 maggio 2002

LUISS Guido Carli, Roma

Il Convegno si è articolato in due sessioni. La prima sessione – preceduta da un breve saluto introduttivo del prof. Renato Balduzzi – si è aperta con la relazione del prof. Massimo Luciani sul temaDiritto alla salute e diritto all’assistenza: configurazione e tecniche di tutela’. In riferimento al tema oggetto della sua relazione il prof. Luciani ha sottolineato come sarebbe più opportuno parlare, al plurale, di diritti alla salute e diritti all’assistenza. Il diritto alla salute infatti partecipa della struttura sia dei diritti di libertà che dei diritti sociali e si articola in svariate prestazioni: diritto alle cure, alle cure gratuite, alla scelta del medico, diritto di non essere curati etc…Quindi appare più corretto parlare di diritti collegati al bene salute.

Il diritto all’assistenza invece non ha neppure un’espressa sanzione in Costituzione, ma al pari del diritto alla salute, ricomprende al suo interno molteplici diritti ad esso collegati. Questi diritti peraltro, ai sensi dell’art. 38 Cost., sono utilizzati per categorie di beneficiari, categorie che vengono identificate dal punto di vista soggettivo e non oggettivo, in riferimento cioè al bene cui si aggancia il diritto stesso. Ciò rende ancora più difficile una ricostruzione concettuale unitaria del diritto all’assistenza.

Il legislatore ordinario, al contrario, si ispira ad una diversa ratio, perché nella legge 238/00 l’impostazione che emerge è quella che l’assistenza sia organizzata per bisogni e non per categorie di soggetti. Rispetto al dato costituzionale, questa impostazione segna una profonda differenza che potrebbe far ritenere, sul piano teorico, che vi siano delle categorie che, in quanto non menzionate dall’art. 38, non godano affatto del diritto all’assistenza. In realtà sul piano pratico il problema si sgonfia, perché per queste categorie di soggetti vale l’aggancio con altre disposizioni costituzionali. Sul piano dei principi si è rimanifestato il collegamento tra diritti a prestazione da una parte e diritti a partecipazione dall’altra, sullo sfondo del controverso rapporto tra federalismo, inteso come processo, e uguaglianza. La previsione di autonomie totalmente prive di limiti determina una potenziale compromissione del principio di uguaglianza e da questo punto di vista il nuovo testo costituzionale richiama esigenze egalitarie in numerosi passaggi quali l’art. 117, comma 2, lettera m ed e; l’art. 119, commi 3 e 5. Peraltro, mentre il comma 3 parla di un fondo perequativo senza vincoli di destinazione che quindi lascia amplissima discrezionalità agli enti destinatari, il comma 5 prevede un intervento molto più penetrante attraverso risorse aggiuntive e interventi speciali da parte dello Stato. Reti di protezione di questo genere sono indispensabili in paesi come l’Italia in cui esistono gravi squilibri regionali non certo paragonabili a quelli di altri paesi che hanno conosciuto processi dei federalizzazione.

Diversa è la disciplina per ciò che concerne la tutela del diritto alla salute, da una parte, e quella del diritto all’assistenza, dall’altra. La prima è materia di legislazione concorrente e non sembra essere cambiato molto rispetto al vecchio testo costituzionale, perché vanno comunque rispettati i principi generali. Una sensibile differenza rispetto al passato è costituita dal fatto che prima allo Stato era consentito adottare una normazione di dettaglio cedevole in attesa di quella regionale, mentre oggi tale possibilità non è più permessa. L’assistenza rientra invece fra le materie di competenza residuale, non essendo elencata, almeno come macromateria, né nel secondo, né nel terzo comma.

In riferimento al problema dei livelli essenziali, il prof. Luciani ha sottolineato come la lettera m abbia una sorta di filiazione diretta con il vecchio articolo 58, comma 1, del testo licenziato dalla Bicamerale, con la differenza che nel nuovo titolo V non si parla solo di diritti sociali, ma anche di diritti politici. Se è vero che la salute è un diritto sociale, nondimeno, dal punto di vista dei diritti collegati alla salute, ci sono dei veri e propri diritti di libertà. Se quindi la norma rileva anche per i diritti civili, questo significa che la garanzia dei livelli essenziali vale per tutti. Tale garanzia inoltre non è soltanto garanzia di un quantum, ma anche garanzia di un minimo di standard organizzativo.

Sul significato di livelli essenziali il prof. Luciani è d’accordo con il prof. Balduzzi quando dice che essenziali non significa minimi, ma ritiene che la vera differenza stia nel fatto che essenziale attiene al contenuto appunto essenziale, che non è determinato discrezionalmente dal legislatore, come sarebbe per il contenuto minimo, ma è determinato dall’interpretazione della Costituzione. Se partiamo dall’idea che la Costituzione tutela l’essenza dei diritti costituzionali, lo sforzo dell’interprete è proprio quello di ricostruire questo ‘inafferrabile’, cosa che non gli sarebbe stata richiesta nel caso di tutela di meri livelli minimi.

Il prof. Luciani ritiene inoltre che per la legislazione regionale valga ancora il limite del diritto privato e che l’interesse nazionale, pur formalmente espunto dal testo costituzionale, continui ad esistere nel senso che, pur non essendo espressamente tipizzato, non possa considerarsi interesse nazionale ciò che non ha alcun aggancio con gli interessi dell’art. 120.

Il prof. Giorgio Pastori, svolgendo la relazione sul tema ‘Pubblico e privato in campo sanitario e assistenziale: i modelli regionali nella prospettiva federalistica’, ha osservato che gli ordinamenti della sanità e dell’assistenza sociale hanno subìto nel corso degli ultimi anni non poche modificazioni che hanno inciso sul ruolo ricoperto dai soggetti pubblici e privati in tali ambiti. Si registra una sorta di processo convergente di trasformazione tra i due campi grazie ad una osmosi di concezioni e di istituti, processo che la riforma del titolo V della Costituzione ha definitivamente sanzionato. In sintesi può dirsi che è in atto, in entrambi i campi, un passaggio dalla complementarietà del ruolo dei soggetti privati rispetto a quelli pubblici ad un’integrazione del ruolo dei primi nell’ambito di un coordinamento pubblico dei servizi stessi.

Nel dettaglio, i fattori di ordine generale che hanno determinato tale passaggio sono sintetizzabili nella progressiva finalizzazione dei servizi stessi allo scopo di dare effettiva e concreta attuazione ai diritti fondamentali, c.d. di cittadinanza sociale, sanciti negli artt. 32 e 38 della Costituzione.

Il profilo finalistico dei servizi è stato dunque fortemente riproposto ed incentrato sull’homme situé, ovvero sulla persona situata nel contesto sociale. Si è così posto l’accento – da parte della dottrina – sulla personalizzazione dei servizi e conseguentemente sul profilo della qualità del servizio da prestare. In tal senso vengono in rilievo le specifiche disposizioni contenute nelle Carte dei servizi e le nuove forme di controllo e tutela dell’utente. Nello stesso senso si è sottolineata l’esigenza di ripensare sia la sanità sia l’assistenza sociale in termini di protezione sociale attiva, nel quadro di un welfare state non più a carattere riparativo, ma come promotore di condizioni generali di difesa e sviluppo della persona.

La modifica del titolo V della Costituzione ha contribuito a dare un rinnovato fondamento a tale prospettiva, distinguendo la competenza del legislatore statale, di cui all’articolo 117, comma 2, lett. m) e quella regionale a disciplinare l’ordinamento dei rispettivi servizi. La distinzione delle competenze riflette non soltanto esigenze ovvie di parità di trattamento in ordine alla garanzia dei diritti civili e sociali, ma mette in rilievo il dato sostanziale che rappresenta la ragione unificante dei singoli servizi, liberalizzando nel contempo la disciplina dei modi e degli strumenti per darvi attuazione.

Lo sviluppo della legislazione sia ordinaria sia costituzionale si è mossa in questa direzione e in un certo senso è andata oltre: da un lato infatti la legislazione sanitaria sia nazionale sia regionale è passata dalla previsione di un ruolo complementare delle strutture private nella attuazione della programmazione sanitaria alla previsione di un sistema fondato sul concorso paritario di strutture pubbliche e private che abbiano comuni requisiti di qualità. Al metodo delle convenzioni obbligatorie o facoltative si è sostituita una modalità di composizione dell’assetto dei soggetti che provvedono a prestare i servizi fondata sulla regola delle tre A: autorizzazione, accreditamento e accordo, dove il secondo riveste rilievo centrale, rappresentando lo strumento per realizzare una rete di servizi formata da strutture pubbliche e private, con requisiti di qualità comparabili e fungibili, e poste, di fronte al diritto di scelta dell’utente, in una posizione di parità e conseguentemente di concorrenzialità reciproca.

La linea segnata dalle trasformazioni in corso nell’ambito del sistema sanitario ha poi trovato sviluppo e conferma, nel campo dei servizi socio-assistenziali, con la legge n. 328 del 2000. Quest’ultima mira ad un assetto dei servizi sociali alla persona come sistema integrato o rete di servizi a cui concorrono in modo costitutivo strutture pubbliche e strutture private, mutuandosi dalla disciplina della sanità gli istituti dell’autorizzazione, dell’accreditamento e dell’accordo.Tale assetto trova oggi un preciso punto di riferimento costituzionale nell’articolo 118, comma 4 della Costituzione, ove si sancisce il principio di sussidiarietà sociale, secondo cui gli enti territoriali favoriscono l’autonoma iniziativa dei cittadini, singoli e associati, per lo svolgimento di attività di interesse generale.

D’altro canto, il coinvolgimento/riconoscimento dei soggetti e delle strutture private sembra avere una valenza ulteriore: la finalizzazione personale dei servizi significa anche che le persone siano i soggetti attivi del sistema. Numerosi sono i riscontri presenti nella legge n. 328 del 2000, con i riferimenti alla famiglia e agli altri soggetti sociali prossimi, nei luoghi di vita e di aggregazione sociale, a coloro che si trovano in condizioni di bisogno. In tal senso vanno letti i riferimenti alla solidarietà sociale, alle iniziative delle persone, al sostegno dei nuclei familiari.

Si realizza in tal modo il passaggio dalla solidarietà delegata ai pubblici poteri a forme di solidarietà esercitate dai singoli, dalle famiglie. Si è pertanto parlato di un welfare state delle responsabilità condivise.

Nella stessa linea non mancano corrispondenti indicazioni nella legislazione e nella programmazione sanitaria, specie in quelle regionali, in analogia a quanto previsto dalla legge n. 328 del 2000.

L’accento posto sulla personalizzazione del servizio e sulla soggettività attiva del privato, singolo o associato, implica ulteriori trasformazioni anche sul versante del governo pubblico del sistema dei servizi. Allo spostamento della gestione in prossimità dei destinatari, attraverso una valorizzazione dei rapporti di solidarietà sociale, corrisponde una parallela tendenza a spostare, ad un livello più prossimo, la responsabilità di governo del sistema dei servizi. Emblematica al riguardo è la centralità, prevista nella legge 328 del 2000, del piano di zona sotto la responsabilità dei comuni, singoli o associati.

Analogamente le tendenze oggi invalse, nel campo della sanità, vedono le regioni rivestire un compito di ente regolatore, non di governo, lasciando alla dimensione locale (Asl e comuni) un compito propriamente di governo. Al contempo, le strutture di governo locale dei servizi sanitari e socio-assistenziali perdono un ruolo di gestione, per divenire i soggetti responsabili di quello che oggi si è soliti definire ruolo PAC (programmare, acquistare e controllare i servizi) e per essere insieme il punto di riferimento e di responsabilità unitaria del sistema in sede locale e dell’attuazione dei diritti sociali a cui questo è finalizzato.

Il principio di sussidiarietà istituzionale di cui al primo comma dell’articolo 118 della Costituzione, assieme ai principi di adeguatezza e di differenziazione, rappresenta il sigillo costituzionale a un tale riassetto del governo dei servizi fra regioni ed enti locali.

A ciò corrisponde anche un mutamento del rapporto fra pubblico e privato sul piano della programmazione. Significativo è il richiamo formulato dalla legge n. 328 del 2000 all’applicazione delle nuove modalità di programmazione negoziata.

Il dott. Giampiero Cilione ha sottolineato come la riforma del titolo V della Costituzione abbia aperto sicuramente una serie di opportunità, ma al contempo determinato una maggiore problematicità dei rapporti fra i diversi livelli di governo.

In ordine al settore della sanità occorre preliminarmente prendere atto della continua ricerca, da parte del legislatore, del riferimento istituzionale da privilegiare nella organizzazione e gestione dei servizi sanitari. Ciò è probabilmente dovuto al fatto che la materia della tutela della salute non rientra tra quelle istituzionalmente poste in capo all’Unione europea, cosa che avrebbe determinato un maggior consolidamento di alcune competenze.

Sul versante dell’analisi degli effetti delle fonti, si evidenzia come il decreto legislativo n. 112 del 1998 non abbia inciso significativamente sul tema della sanità, se si esclude la concessione degli indenizzi ai soggetti danneggiati da trasfusioni.

Le fonti successive – il decreto legislativo n. 229 del 1999 e la legge 419 – individuavano chiaramente in capo alla regione la titolarità del servizio sanitario e la competenza a regolarlo e a finanziarlo. Il limite del primo atto normativo era tuttavia rinvenibile nella discrasia tra la titolarità del servizio e la capacità di regolazione dello stesso.

Il decreto-legge n. 347 del 2001 – la cui importanza nel campo della sanità è, ad avviso di Cilione, strategica – supera largamente l’impianto preesistente, – insieme anche alla riforma, successivamente intervenuta, del titolo V della Costituzione -, e consente alle regioni di recuperare spazi estremamente rilevanti di autonomia regolativa. Si pensi al riguardo alle sperimentazioni gestionali, all’accreditamento, alla assistenza indiretta e alle politiche farmaceutiche.

Per quanto riguarda la nuova disciplina del titolo V della Costituzione e, segnatamente, la previsione dei livelli essenziali, per quanto riguarda la sanità, essi sono stati individuati con il Dpcm 29 novembre 2001 che ha recepito un accordo di Conferenza Stato-regioni. Si tratta, ad avviso di Cilione, di una interpretazione molto ‘timida’, che consente alle regioni di conservare ampi margini in ordine alla individuazione dei livelli essenziali.

Sotto il profilo dell’attivazione della disciplina regionale è fondamentale comprendere la consistenza dei principi fondamentali la cui determinazione resta di competenza statale.

In Emilia-Romagna si è inteso predisporre un progetto di attuazione con legge organica della riforma del titolo V della Costituzione, positivizzando i diversi aspetti della normativa costituzionale ed esplicitando i principi che, secondo le interpretazioni politiche e giuridiche, sono ritenuti fondamentali e non derogabili da parte del legislatore statale. Si delinea così un servizio sanitario regionale di carattere universalistico, fondato sul monopsonio, ovvero sul finanziamento pubblico, con una centralità dell’azienda sanitaria locale nell’erogazione dei servizi e con l’esclusività del rapporto del personale che opera nelle strutture sanitarie pubbliche.

Per quanto concerne l’assistenza, il quadro delle competenze è meno complesso, considerato che sin dagli anni’70, con i decreti di trasferimento delle funzioni, si determinò un’intensa regionalizzazione delle competenze, allocando in capo ai comuni le funzioni di erogazione delle prestazioni socio-assistenziali. Tale modello si è rafforzato per effetto della legge n..328 del 2000 e del precedente decreto-legislativo n. 112 del 1998, recanti entrambi una nuova concezione delle politiche sociali basata su interventi legati a situazioni di bisogno. La legge n. 328 del 2000 contiene due importanti novità: attribuzione alla competenza statale, anche in materia socio-assistenziale, della determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni; ampliamento del concetto di titolarità dei compiti dei comuni, passando alla costruzione di un sistema sociale a rete.

Il dott. Annibale Ferrari ha analizzato i processi riformatori che hanno riguardato sia il settore sanitario sia quello socio-assistenziale dalla particolare prospettiva rappresentata dal rapporto di questi ultimi con il territorio e con le comunità verso le quali l’attività di quei settori è rivolta. Tale rapporto può assumere una duplice tipologia: quella della c.d. territorializzazione e quella della c.d. istituzionalizzazione, a seconda che ci si avvicini di più verso forme di immedesimazione delle funzioni cui tali servizi assolvono con l’organizzazione complessiva della vita della comunità di riferimento, ovvero si tenda a specializzare tali funzioni in organismi autosufficienti e dominati da logiche e separate dal territorio.

I diversi interventi legislativi succedutisi in passato hanno spesso oscillato, nella ricerca di una soluzione adeguata, tra l’una e l’altra tipologia. Da un punto di vista generale, e in via di prima approssimazione, si può però ora affermare, ad avviso di Ferrari, che il legislatore appare orientato sia nel campo della sanità sia in quello dell’assistenza a perseguire il modello della territorializzazione dei servizi.

Le disposizioni che evidenziano in maniera chiara l’opzione del legislatore sono quelle relative al ruolo e funzioni delle aziende sanitarie locali e delle aziende ospedaliere.

Per quanto riguarda la nuova disciplina dei servizi socio-assistenziali, la legge n. 328 del 2000 indica formalmente la territorializzazione dei servizi sociali, che avviene nel momento in cui vi è il passaggio da un sistema di intervento basato sulle categorie dei beneficiari alla creazione di una rete di servizi connessa con le politiche del territorio.

Il dibattito intorno al rapporto fra territorio e soggetti erogatori di servizi socio-sanitari e socio-assistenziali è ora sottoposto ad un generale ripensamento, alla luce sia delle modifiche intervenute sul Titolo V della Costituzione sia con riferimento alle ipotesi di riforma contenute nel c.d ddl sulla devolution. Si pongono infatti una serie di domande cruciali: in primo luogo, i livelli essenziali dei servizi sociali, la cui determinazione la Costituzione affida al legislatore statale, possono costituire la cornice sufficiente per definire un modello valido per tutti i sistemi sanitari e socio-assistenziali locali, come pure richiedeva la legge delega in materia sanitaria? Può la programmazione nazionale rappresentare il momento di precisazione di tale modello? Infine: quali strumenti si offrono nel nuovo ordinamento costituzionale per condizionare le scelte dei sistemi socio-sanitari locali?

Si tratta di un quadro di riferimento che presenta alcuni profili problematici: in particolare, è vero che la concezione dei livelli essenziali di assistenza presenta un carattere di aterritorialità perchè riferita a criteri di uniformità su tutto il territorio nazionale? Allo stesso modo, gli interventi speciali previsti dall’articolo 119, comma 5 e 3 devono essere sottoposti ad un attento esame in ordine alla loro idoneità a conseguire i fini qui proposti.

Questi profili problematici paiono accentuarsi anche alla luce del ddl sulla devolution in cui si attribuisce – emblematica, a riguardo, la relazione illustrativa al ddl – la competenza legislativa esclusiva alle regioni non soltanto in tema di assistenza ma anche su quella della organizzazione sanitaria.

In conclusione, la legislazione di riforma in campo sanitario ed assistenziale costituisce, ad avviso dell’interventore, un importante passo in avanti grazie alla opera di razionalizzazione degli interventi e al potenziamento della rete locale di assistenza. Occorre tuttavia domandarsi se il modello delineato non costituisca la massima espressione di un modello istituzionale di welfare state e proprio per questa ragione sconti la pretesa, in un contesto di complessità sociale, di attivare processi di lettura e di risposta ai bisogni che risulta onnicomprensiva e, ad avviso di chi formula una serie di critiche, inefficiente. Il problema si sposta allora sulla questione della individuazione delle più efficaci garanzie di tutela di quei diritti che trovano nella Costituzione un preciso presidio.

Il prof. Guido Meloni ha incentrato il suo intervento sull’analisi dell’istituto dell’accreditamento, come previsto dalla legge n. 328 del 2000, perchè soggetto ad una legislazione cedevole, proprio in relazione alla competenza legislativa piena regionale riconosciuta in materia socio-assistenziale. In linea generale, l’accreditamento – istituto di derivazione anglosassone – è il riconoscimento da parte di un soggetto terzo, nei soggetti prestatori dei servizi o dei servizi stessi, della presenza di taluni requisiti di qualità che investono sia i soggetti, sia il percorso di intervento, sia, infine, il risultato. In Italia, l’istituto in questione è stato recepito quale accreditamento istituzionale, ovvero affidato a soggetti istituzionali (Regioni per la sanità, comuni per l’assistenza).

Nell’ambito del sistema delineato dalla legge n. 328 del 2000, l’istituto dell’accreditamento riveste un ruolo centrale perchè rispondente ad un triplice ordine di esigenze. Preliminarmente, l’articolo 1, comma 5 individua i soggetti da accreditarsi: quelli del c.d. terzo settore più altri soggetti privati. Vi è pertanto un’estensione anche a soggetti che perseguono finalità di lucro (operatori economici in senso proprio).

La prima esigenza che l’istituto dell’accreditamento mira a soddisfare è interna alla logica dei servizi pubblici, anche locali: inserire l’accreditamento all’interno della logica del servizio pubblico dell’assistenza sociale.

La seconda finalità è invece più interna alla logica propria del mercato, prevedendosi che il cittadino-utente possa spendere, eventualmente se previsti, presso i soggetti accreditati i titoli per l’acquisto dei servizi.

Il terzo elemento caratterizzante è legato al fatto che il sistema di accreditamento è funzionale rispetto al circuito programmatorio, politico-decisionale. Soltanto i soggetti accreditati possono infatti concorrere alla determinazione delle scelte programmatorie di zona, con esclusivo riferimento a quelli del terzo settore. In tal senso, l’istituto dell’accreditamento rinsalda il circuito democratico, partecipativo, più propriamente, politico.

Per quanto riguarda le competenze, l’accreditamento è affidato ai comuni, in base a criteri regionali, salvo requisiti minimi che potrebbero essere previsti dal parte dello Stato.

In ordine agli effetti che un siffatto sistema, previsto dal legislatore ma in larga parte ancora inattuato, determina, si può sicuramente dire che esso definisce una maggiore rispondenza fra bisogno localizzato e la qualità dei soggetti ed anche dei percorsi di intervento che vengono localizzati. Al contempo, un sistema di accreditamento locale determina una maggiore attivazione delle risorse locali. Si determina infine un quasi micro-mercato, molto localizzato, con il limite di una territorializzazione molto stretta.

Vi è infine una forte localizzazione degli standard di qualità, affidati per lo più ai comuni, rispetto ai quali si pone un problema di eguaglianza rispetto al territorio nazionale.

Perplessità, ad avviso dell’interventore, vi sono circa l’adeguatezza strutturale e funzionale degli enti locali rispetto a tali compiti, nonchè – è da segnalarsi – il rischio di compromissione politica nel processo di accreditamento.

Il prof. Cesare Pinelli ha sostenuto che la lettera m) del comma secondo dell’articolo 117 si presta, dal punto di vista sistematico, a tre ordini di collegamenti: a) si tratta di una funzione che taglia trasversalmente più materie; b) è legata alle disposizioni del nuovo titolo V della Costituzione relative al potere sostitutivo –art. 120 – e a quelle sull’assetto finanziario – art. 119, nonchè al potere perequativo e ai compiti di coordinamento assegnati alla potestà legislativa e, infine c) essa si collega alla prima parte della Costituzione. Il terzo versante è quello più ricco di implicazioni e può essere declinato diversamente; in particolare, sperimentando quale continuità leghi queste innovazioni costituzionali con l’assetto costituzionale previgente.

Il riferimento ai livelli essenziali è assai risalente, e presente nella legge attuativa dell’articolo 32 della Costituzione – la legge n. 833 del 1978. Se così è, occorre chiedersi come mai si sia parlato di una forte discontinuità e comunque di un contrasto con i principi della prima parte della Costituzione.

La Corte costituzionale, con sentenza n. 245 del 1984, affermò che la materia dell’assistenza sanitaria-ospedaliera di cui al precedente elenco dell’art. 117 non era materia completamente assimilabile alle altre presenti nello stesso elenco, riconducendo tale affermazione al principio di eguaglianza. Già allora si poneva il problema – vero cuore della questione – del finanziamento, sganciato sin da allora dalle previsioni testuali. Si faceva allora riferimento al criterio della spesa storica, determinandosi una sfasatura nel rapporto tra un pagamento a piè di lista e una garanzia indifferenziata. L’esigenza di determinare i livelli essenziali è sempre stata invece legata all’approvazione del piano sanitario nazionale, approvato però molto più tardi.

La fissazione in sede nazionale di tali livelli può basarsi su una duplice presunzione: un’assenza di standard comprometterebbe il principio di eguale godimento dei diritti sociali da parte dei cittadini ed un minimo di opportunità di crescita da riconoscersi a tutte le autonomie regionali, così come una protezione sociale generalizzata fornita dallo Stato impedirebbe alle autonomie la sperimentazione di soluzioni differenti, previa valutazione del rapporto fra risorse a disposizione ed obiettivi politici e un eguale godimento dei diritti sociali da parte dei cittadini.

La questione cruciale è legata al rischio, ad avviso di Pinelli, di ripetere l’esperienza dell’attuazione, con la legge n.833 del 1978, dell’articolo 32 della Costituzione, ovvero la scissione fra decisioni in tema di finanza e decisioni in tema di determinazione dei livelli essenziali e di organizzazione del servizio sanitario. E’ invece determinante il collegamento, assente nel Dpcm richiamato, tra livelli essenziali e perequazione finanziaria; sorgono pertanto perplessità in ordine all’attuazione dell’articolo 119 della Costituzione.

Sulla base di quanto prescritto dall’articolo 120 della Costituzione, si potrebbe ritenere che sia il fondo perequativo a collegarsi alla determinazione dei livelli essenziali.


Nella sessione pomeridiana si è sono svolte due tavole rotonde. La prima ha avuto ad oggetto i ‘Diritti alla salute e all’assistenza come diritti di cittadinanza‘. Come evidenziato dal moderatore prof. Giuseppe Di Gaspare, il tema suscita particolare interesse per gli approdi differenziati delle diverse scienze, politica e giuridica, con riguardo alla qualificazione dei due diritti in esame in termini di diritti di cittadinanza.

Dopo un breve saluto del dott. D’Averio in rappresentanza del Ministro del Welfare, Fra Pietro Cicinelli (OFM – ARIS) ha sottoposto all’uditorio un punto di osservazione intermedio, di ispirazione cristiana, costituito dalle unità Onlus composte da religiosi e laici aderenti all’ARIS. Dopo aver individuato alcuni problemi attuativi del disegno riformatore degli anni 1998-99, ha auspicato una gestione ‘mista’ dei servizi sanitari e l’istituzione di un soggetto ‘terzo’ per l’accreditamento.

Il dott. Maurizio Giordano (Fondazione Zancan), prendendo spunto dal noto saggio di T. H. Marshall, nel quale si teorizzava la cittadinanza in termini di titolarità non solo dei diritti civili e politici, ma anche dei diritti sociali, ha posto l’accento su due diverse accezioni di cittadinanza, non necessariamente in contrasto tra loro. In un primo senso, può parlarsi di cittadinanza ‘societaria’, fondata sugli artt. 2 e 3 Cost., caratterizzata dal ruolo centrale delle società civile (famiglie, autoaiuto e soggetti del terzo settore), con lo Stato in posizione sussidiaria. In una seconda accezione, mutuata dal pensatore liberale R. Dahrendorf, il concetto di cittadinanza tende all’equilibrio tra l’offerta dei beni (momento economico) e i c.d. entitlements (momento politico), che pone l’enfasi sugli artt. 117 e 118 Cost. L’inveramento di tali concezioni dipenderà soprattutto dal tipo di federalismo (competitivo oppure solidale) che si andrà a realizzare.

Il dott. Carmelo Pillitteri (CNEL) dopo un breve excursus storico del concetto di cittadinanza, ha posto l’enfasi sui diritti di cittadinanza come vissuto e realizzato del cittadino, sottolineando il passaggio dai livelli di copertura mutualistica, nel quale senza prevenzione e riabilitazione si richiede il presupposto della malattia, alla universalità. Gli attuali problemi per i diritti di cittadinanza sorgono a causa dell’andamento dell’economia e dei contraccolpi per l’invecchiamento della popolazione occidentale. Nel settore dell’assistenza si evidenzia il mutamento di approccio dalla legge Crispi, ispirata a ragioni caritatevoli, alla legge quadro n. 328 del 2000, che introduce il concetto dei livelli essenziali e valorizza il ruolo e le competenze del ‘terzo settore’. Richiamata l’attenzione sulla trasversalità dei problemi, si pongono due questioni attinenti alle scelte politiche: quella dell’istituzione di un Fondo nazionale per i non autosufficienti in una società con vincoli familiari sempre minori, portando ad esempio il generalizzato rifiuto dei soggetti tali da parte delle case di riposo (c.d. alberghi per anziani); e quella della previsione del reddito di cittadinanza per i giovani. Conclude sottolineando l’urgenza di affrontare tali temi a livello di scelte politiche, senza arrestarsi al dibattito giuridico.

Il dott. Serafino Zucchelli (ANAAO), infine, ha criticato il sistema di finanziamento frutto del d.lgs. n. 56 del 2000 e si è chiesto come correggere le disparità. Inoltre, ha dichiarato di ritiene insufficienti gli elementi di perequazione e si è domandato se ciò non comporti un’attentato’ ai diritti di cittadinanza.

La seconda tavola rotonda ha riguardato ‘Le politiche della sanità e dell’assistenza nel contesto delle prospettive federalistiche’. Il prof. Gian Candido De Martin, nelle vesti di moderatore, riferendosi alla legge cost. n. 3 del 2001, dopo aver sottolineato il ruolo dell’autonomia come portatrice di differenziazione, ha tenuto ad affermare che la vera novità è costituita dalla potestà di competenza legislativa statale esclusiva di determinare i livelli essenziali di prestazione dei diritti civili e sociali (art. 117, c. 2°, lett. m), strumento che orienta la riforma nella direzione del principio di eguaglianza. In sostanza, il nuovo Titolo V della Costituzione non può essere ricondotto soltanto all’introduzione del principio di sussidiarietà orizzontale; ciò è ancor più vero se si tiene conto che l’orizzonte devono essere sempre i diritti di cittadinanza. De Martin, nel cedere la parola ai relatori ha posto la questione se la legge cost. n. 3/2001 costituisca una controriforma rispetto al(ai) modello(i) di Welfare conosciuti in precedenza, avanzando come propria lettura il tendenziale passaggio ad un Welfare ‘devoluto’, caratterizzato dalla dismissione del ruolo pubblico in sanità, dal maggior coinvolgimento degli enti locali, e dall’integrazione tra sanitario e sociale, con un ruolo centrale delle organizzazioni di volontariato.

L’on. Rosy Bindi (membro della Commissione Affari sociali Camera) ha proposto una lettura della legge cost. n. 3 del 2001 come inveramento dell’art. 32 Cost., ed ha supportato tale affermazione ricordando come il d.lgs. 229/99 e la legge 328/00 abbiano costituito una spinta a recepire il concetto di ‘livelli essenziali’ a livello costituzionale. Nell’opinione di Bindi, ‘essenzialità’ significa non tanto sostenibilità economica e finanziaria (livelli minimi), bensì ciò che serve. In relazione all’atto con cui sono stati individuati i livelli essenziali di assistenza, è stata sollevato il dubbio della legittimità costituzionale, in quanto non è stato utilizzato un atto avente forza di legge. Ad avviso di Bindi, la novità del Titolo V riformato è costituita dalla legittimità di diversi modelli organizzativi regionali in sanità. Prendendo a parametro i tre principi del S.s.n. sin dal 1978 e confermati dalle riforme del 1992 e del 1999 (universalità, globalità e finanaziamento attraverso la fiscalità generale) è stato ricordato come, ad oggi, siano riscontrabili tre modelli organizzativi regionali: i) le regioni che li hanno rispettati (Emilia-Romagna, Toscana, Umbria e Marche); ii) quelle che non sono riuscite, chi per necessità chi per omissione, ad adeguarsi; iii) le regioni che volontariamente se ne sono discostate (Lombardia). Nell’attuale quadro politico i due principi della universalità e della globalità non sono esplicitamente messi in dubbio; allo stesso tempo, però, si assiste ad un surrettizio cambiamento del S.s.n. dovuto all’assenza di governo del sistema. Tale inerzia provoca conseguenze su diversi momenti vitali del S.s.n.: si pensi al depotenziamento del principio di programmazione, alla progressivo affievolimento della gestione e responsabilità pubbliche, alla messa in discussione della natura pubblicistica del rapporto di lavoro del personale sanitario, alla scarsa attenzione alla continuità assistenziale e all’integrazione tra i diversi segmenti ed attori, al cortocircuito tra responsabilità politica e responsabilità gestionale. Bindi ha denunziato, altresì, il tentativo di stravolgere il concetto di livelli essenziali di assistenza contenuto nel Piano sanitario regionale della Regione Lombardia, laddove si afferma che si tratta di ‘livelli sostenibili finanziariamente’. Tale tentativo condurrà prima o poi a domandarsi se sia sostenibile un unico finanziatore del sistema, ponendo così in discussione il terzo principio-cardine del S.s.n. allo scopo di approdare surrettiziamente ad una pluralità di finanziatori, sotto forma di assicurazioni private. Con riguardo al d.d.l. Frattini in materia di I.r.c.c.s., Bindi ha criticato fortemente l’idea di esternalizzazione ivi contenuta, che abbraccia anche le attività di sala operatoria e che consente la creazione di S.p.a. per i servizi alberghieri connessi all’assistenza sanitaria. In conclusione, pur non esistendo un sistema perfetto in termini assoluti, il S.s.n. è stato valutato in termini molto lusinghieri dall’O.M.S., soprattutto in relazione alla sua sostenibilità finanziaria, equità ed efficienza rispetto ai bisogni; l’auspicio, pertanto, è che se sussiste una volontà politica di adottare un sistema diverso dal S.s.n., essa divenga oggetto di dibattito pubblico e trasparente che faccia emergere le diverse visioni in materia in modo tale da consentire un giudizio consapevole ai cittadini elettori.

Il dott. Carlo Castellano (Confindustria) ha sostenuto che il principio di finanziamento del S.s.n. attraverso la fiscalità generale sia già superato nei fatti, come dimostra l’ammontare della spesa privata in sanità (50.000 miliardi di Lire) a fronte della spesa pubblica (150.000 miliardi di Lire). Ciò sta a significare che l’unico finanziatore pubblico già oggi non riesce a far fronte alla domanda di sanità che viene dalla società. Quanto al rapporto tra d.lgs. 229/99 e Titolo V riformato, l’opinione di Castellano è che, da un lato, il primo non sia mai stato applicato e che, dall’altro, le due fonti prefigurino modelli di sanità assolutamente non coincidenti. A livello di risorse, viene altresì messa in evidenza una situazione grave; una risposta percorribile è senz’altro la strada del copayment (es. ticket), che dovrà essere il meno ineguale possibile. Quanto alla aziendalizzazione, ciò che conta è cosa e come si spende; sul punto si evidenzia l’assoluta carenza di dati (c’è solo un’indagine Fiaso, ma riguarda appena 50 aziende sanitarie) e la scarsa chiarezza dei conti aziendali. La strada dei fondi sanitari integrativi prevista dal d.lgs. 229/99 è sbagliata e inattuata. Considerando intangibile l’universalismo del sistema, è auspicabile non solo una pluralità di erogatori sia pubblici che privati, ma anche una pluralità di finanziatori.

Il dott. Cesare Azzolini (FIASO), dopo aver sottoposto all’attenzione dell’uditorio le problematiche quotidiane della azienda sanitaria della quale è commissario straordinario, ed in particolare le centinaia di migliaia di euro di debiti che deve gestire, porta ad esempio gli effetti perversi dovuti all’abolizione del ticket sui farmaci.

Il sen. Antonio Tomassini (Presidente Commissione Igiene e sanità del Senato), ritenendo importante evitare toni da demagogia e propaganda politica, ha analizzato la tipologia della spesa sanitaria pubblica, oltrechè gli approdi dell’aziendalizzazione. La spesa è così suddivisa: 65% per il personale, del quale oltre un quarto è addetto a mansioni non sanitarie; 25% per beni e servizi; 10% per farmaceutica. L’aziendalizzazione, dal canto suo, ha coinvolto appena il 20-30% delle strutture. Alla luce di tali dati emergono tre Italie: i) quella tecnologica; ii) quella adeguata; iii) quella arretrata. Se le prime due contribuiscono all’affermazione del c.d. ‘consumismo sanitario’, la terza rinvia al concetto di indigenza e ai c.d. ‘viaggi della salute’. Gli stessi livelli essenziali di assistenza, si limitano ad un controllo del prodotto, e non, invece, degli operatori né degli erogatori. Passando alla valutazione positiva del S.s.n. da parte dell’O.M.S., i veri motivi attengono all’elevato numero di medici rispetto ai cittadini, che di per sé non è parametro lusinghiero, all’alto numero delle prestazioni accessibili, e al basso costo del sistema nel suo complesso. Quanto ai modelli regionali, come si evince dalla relazione della Commissione d’inchiesta sul S.s.n. della passata legislatura, la scelta riguarda il ‘modello della concertazione’ (Toscana ed Emilia-Romagna) oppure il ‘modello delle regole’ (Lombardia). La direzione è quella di un rimodellamento del S.s.n. con un maggior peso dato alla prevenzione, alla medicina del territorio e alla riabilitazione. Allo scopo occorrono risorse: si pensi al project financing, alle fondazioni, ai fondi integrativi, ma anche alla meritocrazia nel personale, alla possibilità di scelta informata e consapevole, alla qualità del processo e dei risultati e alla centralizzazione degli acquisti.

Il dott. Giovanni Bissoni (assessore alla sanità Regione Emilia-Romagna) ha dichiarato di condividere la lettura di De Martin sulle ricadute del nuovo Titolo V Cost. in sanità. Se, da un lato, il d.lgs. 229/99 prefigura un S.s.n. in virtù delle garanzie che prevede; dall’altro, il Titolo V attribuisce una più ampia autonomia organizzativa e gestionale alle Regioni, ma pur sempre nell’ambito dei principi fondamentali stabiliti dal legislatore statale. Sul punto, occorre evitare lo scontro ideologico sui modelli organizzativi e gestionali, così da concentrarsi sulle valutazioni empiriche che dovranno tener conto della coerenza tra modelli ed obiettivi. Nell’attuale passaggio, invece, si assiste ad un tentativo di imporre soluzioni gestionali uniformi, in particolare promuovendo lo strumento della fondazione. Il d.lgs. 56/2000 va rivisto in quanto prefigura un modello diverso di solidarietà. Sul tema dell’esclusività, inoltre, non è accettabile una riforma attraverso legge statale, in quanto risulterebbe violata la competenza regionale sul punto. Si segnala, inoltre, il recentissimo studio della Regione Emilia-Romagna sul rapporto pubblico-privato in sanità, consultabile in internet al sito dell’Exposanità di Bologna.

Il dott. Giuseppe Fioroni (Federsanità ANCI) ha proposto una lettura dei livelli essenziali come livelli appropriati e ha richiamato tutti a considerare il bene-salute come un bene sociale piuttosto che un bene individuale.

Il prof. Lorenzo Ornaghi (Agenzia per le ONLUS) ha avvertito che l’utilizzo dei concetti di riforma e controriforma costituiscono pericolose contrapposizioni ideologiche, che assolutizzano modelli ormai superati dalla realtà. Ha concordato, poi, sulla cautela scientifica relativa al titolo della tavola rotonda (prospettive federalistiche e modelli di Stato Sociale). Nel constatare che è senz’altro cresciuto il tasso di politicità nelle politiche di sanità ed assistenza, ha sottolineato che le istituzioni politiche possono delineare modello di Welfare, ma tale modello trova la sua realizzazione nei comportamenti sociali. Il movimento che ha caratterizzato gran parte del ’900, vale a dire la istituzionalizzazione sotto l’insegna dello Stato, registra negli ultimi decenni un’inversione di tendenza. Lo stesso universalismo è mutato: se è vero che si connota per le differenze, vero è anche che non è più dentro una comunità territorialmente definita; pertanto la realtà dell’universalismo si connota diversamente rispetto alla realtà della differenza. Assistenza e sanità sono senza dubbio forme di rendimento, efficacia ed efficienza delle istituzioni, ma anche forme di legittimazione della cittadinanza. Considerando la sensibilità, la vulnerabilità del cittadino nelle policy della sanità e dell’assistenza, ciò che è in gioco è davvero la cittadinanza ed il tasso di legittimità della democrazia. Passando al possibile contributo del volontariato nelle politiche della sanità e dell’assistenza, ha evidenziato come la sua crescita non sia una mera compensazione o surroga dell’esistente, registrando non solo divisioni e arretratezza, ma anche modernità nel volontariato. Ha enucleato il tema centrale nella domanda: che partecipazione hanno tali associazioni nella governance, intesa come ripartizioni di responsabilità e di competenze? Per rispondere, invita ad uscire dalle vecchie contrapposizioni tra Stato e società: sottolineando che le associazioni di volontariato non compiono più un’azione residuale, bensì centrale, ha individuato nella formazione e nella qualità le condizioni essenziali per la loro partecipazione alla governance. Ha invitato, inoltre, ad uscire dalla dicotomia tra Stato ed istituzioni regionali, proponendo la soluzione della costruzione di ‘reti’ che diano al cittadino la sanità che chiede. Ha concluso citando esempi di strutture private non solo non estemporanei (ad es., la Facoltà Medicina e Chirurgia della Cattolica organizza da tempo corsi di formazione per l’assistenza da parte di extracomunitari) ma costitutive di quel modello, meglio, di quella realtà che andiamo cercando.

Le conclusioni sono state tratte dal prof. Giorgio Berti (Presidente Centro Bachelet della Luiss), che ha sottolineato la ricchezza degli interventi per le diverse angolazioni emerse. La prospettiva dello Stato delle autonomie è data da funzioni e compiti delimitati non in via generale dal dover essere delle norme giuridiche (prospettiva dei giuristi), bensì sotto la lente di interessi i più diversi. Si ha l’impressione del prevalere delle ragioni di un’unità organizzativa, finanziaria, giuridica del servizio, rispetto ai problemi del centro, della periferia, dello Stato, della Regione. Per tale via le ideologizzazioni si ridimensionano. Ha sottolineato, altresì, che l’attività pubblica e privata in sanità è orientata dalle esigenze essenziali della persona, del cittadino, previste dall’art. 117, c. 2°, lett. m), Cost. e che, davanti a tali esigenze essenziali, i principi dell’organizzazione pubblica si ridimensionano. E’ il principio organizzativo dello Stato che va rivisto. Sotto tale profilo, il Titolo V Cost. non dà nessuna certezza, non va in una direzione o nell’altra: ci mette davanti uno Stato ‘sfasciato’, un po’ a pezzi; ci dà possibili frazionamenti di fronte a singole funzioni. In tale contesto, le assolutizzazioni del passato perdono di senso. Certo è che la concertazione Stato – Regioni allo scopo di mantenere una cornice sarà sempre necessaria, anche nell’ambito della legislazione esclusiva delle Regioni. Nel dibattito di oggi, la democrazia del servizio sanitario non è stata legata alla rappresentanza politica e alla legge come elemento essenziale. La sacralità dei provvedimenti dell’amministrazione non è minore della sacralità della legge, che resta tale solo perché c’è un apparato giudiziario che si muove secondo determinate linee. La riforma del titolo V Cost. costituisce una grande relativizzazione. In un contesto in cui lo Stato nazionale non regge più, la via del servizio crea una politicità relativa a quel servizio: si assiste ad un senso di spezzettamento, di buio, alla creazione artificiosa di unità, di complessi, come in un Medio Evo moderno. Oggi, l’esercizio dei compiti e dei poteri è collettivo, ma nessuno ne è titolare. I poteri si esercitano come se si presupponesse che ci siano, ma in realtà non ci sono. Si assiste ad alterazioni profonde nelle strutture che si pensavano fondamentali. Dopo aver ricordato l’esigenza di ‘vedere e provvedere’ del pubblico, auspica un rafforzamento della presenza del privato che collabori (sia in modo disinteressato che interessato) col pubblico. Occorre pagare i diritti ancora non riconosciuti con spendita personale. L’obiettivo finale è passare dallo Stato di soggezione alla partecipazione.

Luca Castelli, Piero Gambale, Enrico Menichetti e Margherita Procaccini