Titolo V della Costituzione e regolazione del mercato Tra stato e regioni, note a margine dell’art.35 della finanziaria 2002

15.02.2002

Stralcio della relazione introduttiva al convegno del 12 febbraio 2002 “Verso le valutazioni delle istituzioni e degli operatori dopo l’art.35 della legge finanziaria” – Roma Campidoglio sala Protomoteca

A complicare ulteriormente il quadro operativo per le imprese coinvolte nei processi di trasformazione, privatizzazione e liberalizzazione dei mercati dei servizi pubblici locali, incombe la variabile indipendente dell’esercizio della potestà legislativa regionale, residuale o concorrente, ex titolo V novellato della Costituzione con il rischio di una frammentazione del quadro giuridico nel quale le imprese devono, non solo elaborare complesse strategie di adattamento, ma anche prendere ordinarie decisioni di gestione imprenditoriale, come, ad esempio, la partecipazione a gare pubbliche di appalto.
Incertezza e rischio sembrano in realtà sopravvalutati, addebitabili essenzialmente ad una lettura del nuovo titolo V ancora troppo interna al tradizionale approccio da “stato amministrativo”. Il trasferimento della funzione legislativa dallo Stato alle Regioni viene così rappresentato come una specie di successione a titolo universale. Implicitamente si dà per scontato che la potestà legislativa dei Consigli regionali sia munita degli stessi caratteri e attributi della funzione legislativa delle Camere che essa abbia pertanto pari forza di incidere i diritti dei cittadini. Ritengo invece che si possano nutrire forti dubbi sulla validità di questa implicita equiparazione e che di conseguenza il trasferimento di potestà legislativa non sia un giuoco a somma zero nel quale quanto tolto allo Stato, in termini di competenza esclusiva, diventi competenza residuale delle Regioni. Il discutibile presupposto che la “forza di legge” della legislazione regionale sia equiparabile a quella del Palamento ci porterebbe a concludere che in quegli i articoli della Costituzione in cui si prevede una riserva di legge assoluta o relativa, l’individuazione del legislatore ora competente avverrebbe sulla base delle materie indicate dall’art. 117 della Costituzione. In questa visione, diciamo “esclusivo/residuale” l’attribuzione alle Regioni della “ potestà legislativa in riferimento ad ogni materia non espressamente riservata alla legislazione dello Stato” avrebbe una portata preclusiva di qualsiasi intervento legislativo del Parlamento. Orbene, portando questo approccio alle sue logiche conclusioni, siccome “ogni altra materia” legislativa non si ritrova in rerum natura ma è creazione della stessa legislazione esclusiva, noi potremmo avere una legislazione regionale tendenzialmente totalizzante, capace cioè non di trovare, ma anche di creare liberalmente tali materie.

Per scendere sul concreto, la materia “servizi pubblici con o senza rilevanza industriale” appena coniata dal legislatore nazionale nell’ultima legge finanziaria, fino a ieri inesistente, sarebbe ora in odore di incostituzionalità – a tacere poi delle catalogazioni per via regolamentari dei singoli servizi – e potrebbe essere oggetto di una diversa libera qualificazione da parte del legislatore regionale, nell’esercizio della sua competenza esclusiva. Finora, la strada, per parare questo o altri analoghi esiti, da più parti giustamente paventati, ha fatto leva sulla estensione interpretativa della portata delle materie di competenza esclusiva dello Stato in particolare enfatizzando “ordinamento civile” “tutela della concorrenza” o anche “i livelli essenziali dei diritti…civili (?) “. Questa linea interpretativa ha una sua ragione d’essere, se si rimane nel terreno proprio del titolo V, che era e rimane quello della organizzazione dei poteri pubblici e delle pubbliche funzioni in una rinnovata logica di actio finum regundorum tra Stato e Regione. Ma se si esce dal terreno delle funzioni amministrative, e si considera l’esercizio della potestà legislativa residuale delle Regioni per il suo impatto diretto sui cittadini, si incontra il ben più rilevante limite del rispetto dei diritti e delle libertà fondamentali la cui disciplina legislativa materiale è rimessa nella nostra Costituzione alla legge del Parlamento. In questo senso, la previsione dell’art.117 che “Spetta alle Regioni la potestà legislativa in riferimento ad ogni materia non espressamente riservata allo Stato” non va riferita solo alla elencazione contenuta nello stesso articolo delle materie di esclusiva spettanza dello Stato ma anche alle riserve di legge materiale presenti nelle altre parti della Costituzione – siano o no in qualche modo riconducibili alla suddetta elencazione residuale totalizzante delle materie. Da questo punto di vista allora, ci si avvede come la novazione del Titolo V non ha modificato le disposizioni della Costituzione che riconoscono esclusivamente alla legge del Parlamento la funzione di garantire i diritti e le libertà dei cittadini prevedendo che la loro incisione avvenga tramite la potestà legislativa delle Camere. In particolare, per quello che qui rileva, sono soggette alla riserva di legge del Parlamento – ai sensi dell’art. 23 (in base alla legge), dell’art. 41, 3 comma, (la legge determina i programmi e i controlli affinché l’attività economica pubblica e privata..) e dell’art. 43 Cost. (a fini di utilità generale la legge può riservare) – l’imposizione di prestazioni personali o patrimoniali, le limitazioni all’accesso e al concreto esercizio del diritto di impresa (libertà di iniziativa economica privata).

In altri termini, la potestà legislativa regionale incontra fondamentali limiti di forza di legge nei confronti dei diritti costituzionalmente protetti dei cittadini e che solo il Parlamento può incidere. Da questa angolazione si coglie allora appieno il significato proprio della novella costituzionale dell’art.117 di attribuzione alle Regioni di una potestà legislativa residuale, ma non esclusiva, come quella espressamente riservata allo Stato. Anche nella nuova formulazione, letteralmente interpretata, la potestà legislativa delle Regioni non è fungibile con la funzione legislativa esercitata collettivamente dalle due Camere (art. 70 Cost.), disciplinata, in quanto al suo esercizio, nelle modalità di formazione e manifestazione, direttamente dalla Carta Costituzionale.

Per quanto abbia inciso profondamente nella organizzazione pluralista della Repubblica, la riforma del titolo V non ha cambiato questi connotati di fondo della nostra Costituzione e non ha trasformato la Repubblica italiana in uno stato federale. Non è stata spostata la sede delle sovranità che rimane nel Parlamento e può essere limitata esclusivamente ai sensi dell’art.11 della Costituzione, su di un piano di reciprocità con gli altri stati, ma non internamente. La Regione, pertanto, come ente autonomo costitutivo della Repubblica, al pari di Province, Comuni e Città metropolitane non partecipa all’esercizio del potere legislativo dello Stato, espressione della sovranità, di limitare le libertà fondamentali dei cittadini, potestà che nel nostro assetto costituzionale rimane gelosamente attribuita al Parlamento. Consegue, pertanto, che l’ambito di applicazione della potestà legislativa residuale della Regione ex art.117, nelle materie coperte da riserva di legge, incontrando i suddetti limiti di forza di legge, non sia destinato ad avere un impatto ulteriore da quello della conformazione e organizzazione delle funzioni amministrative esercitabili sulla base della vigente legislazione comunitaria e nazionale nei confronti delle imprese, con una incidenza maggiore per le materie non liberalizzate, ma senza possibilità di ulteriori limitazioni e recinzioni. Il riconoscimento di questi limiti accompagna omai una riconsiderazione più attenta della valenza costituzionale del principio della libertà di iniziativa economica aggiornata ai principi di diritto comunitario, parti integranti ormai della nostra costituzione economica.

di Giuseppe Di Gaspare