La Corte giustifica il rigore della disciplina in tema di decadenza e sospensione obbligatoria dalle cariche pubbliche a seguito di condanna

15.02.2002

Corte Costituzionale, 15 febbraio 2002, n. 25

È legittima la sospensione dalla carica elettiva per il reato di cui all’articolo 73 del D.P.R. 309 del 1990 anche se sono state riconosciute le circostanze attenuanti dell’aver agito per motivi di particolare valore morale e sociale e della lieve entità del fatto addebitato.

Giudizio di legittimità costituzionale dell’articolo 15, commi 1, lettera a), 4bis, lettera a), e 4ter della Legge 19 marzo 1990, n. 55 (Nuove disposizioni per la prevenzione della delinquenza di tipo mafioso e di altre gravi forme di manifestazione di pericolosità sociale), come modificata dalla Legge 13 dicembre 1999, n. 475 (Modifiche all’art. 15 della L. 9 marzo 1990, n. 55, e successive modificazioni), promosso dal Tribunale di Roma.

La questione di legittimità costituzionale concerneva l’articolo 15, commi 1, lettera a), 4bis, lettera a), e 4ter della Legge 19 marzo 1990, n. 55 (Nuove disposizioni per la prevenzione della delinquenza di tipo mafioso e di altre gravi forme di manifestazione di pericolosità sociale), e successive integrazioni e modificazioni, nella parte in cui disponeva la sospensione obbligatoria da determinate cariche elettive a seguito di condanna non definitiva per uno dei reati indicati nell’articolo 73 del Decreto del Presidente della Repubblica 9 ottobre 1990, n. 309 (Testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza), senza prevedere l’ipotesi dell’eventuale riconoscimento della circostanza attenuante dell’aver agito per motivi di particolare valore morale e sociale, o anche quella della lieve entità del fatto addebitato. Il giudice rimettente ravvisava un contrasto fra le norme impugnate e gli articoli 3 e 51 della Costituzione, in quanto sarebbe contraddittoria ed irragionevole la scelta legislativa di considerare, ai fini dell’applicazione della decadenza e della sospensione automatiche da certe cariche elettive, anche le condanne a una pena diminuita per effetto della concessione della circostanza attenuante dell’azione commessa per motivi di particolare valore morale e sociale, oltre che del riconoscimento della lieve entità del fatto addebitato. (Il giudizio principale aveva ad oggetto l’impugnazione del provvedimento con cui il Prefetto aveva disposto la sospensione del ricorrente dalla carica di membro del Consiglio comunale di Roma, a seguito della sentenza penale di primo grado con cui il predetto era stato condannato per il reato di cui all’art. 73 D. P. R. 309 del 1990, con il riconoscimento dell’attenuante della lieve entità del fatto, nonché delle circostanze attenuanti generiche e della circostanza di avere agito per motivi di particolare valore morale e sociale.)

La Corte costituzionale, invece, dopo avere rilevato in via preliminare che l’articolo 15 della Legge 55 del 1990 risulta formalmente abrogato, ma il suo contenuto precettivo è stato integralmente riprodotto dal combinato disposto degli articoli 58, comma 1, lettera a), e 59, commi 1, lettera a), e 4, del Decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267 (Testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali), con trasferimento della questione di legittimità costituzionale sulle predette disposizioni del testo unico, ha dichiarato non fondata la questione di legittimità costituzionale.

Le norme denunciate, infatti, perseguono finalità di salvaguardia dell’ordine e della sicurezza pubblica, di tutela della libera determinazione degli organi elettivi, di buon andamento e trasparenza delle amministrazioni pubbliche, contro i gravi pericoli di inquinamento derivanti dalla criminalità organizzata e dalle sue infiltrazioni, coinvolgendo così esigenze ed interessi dell’intera comunità nazionale connessi a valori costituzionali di rilevanza primaria; i delitti per i quali è prevista la decadenza dalla carica elettiva dopo la condanna definitiva, o la sospensione obbligatoria in caso di condanna non definitiva, sono qualificati non tanto dalla loro gravità in relazione al “valore” del bene offeso o all’entità della pena comminata, ma piuttosto dal fatto di essere considerati tutti dal legislatore come manifestazione di delinquenza di tipo mafioso o di altre gravi forme di pericolosità sociale, non irragionevolmente ritenendoli il legislatore stesso, nell’ambito delle proprie, insindacabili scelte di politica criminale, parimenti forniti di alta capacità di inquinamento degli apparati pubblici da parte delle organizzazioni criminali. Si giustifica in questo modo una disciplina molto rigorosa, ispirata alla comune ratio di prevenire e combattere tali gravi pericoli, formulata attraverso l’individuazione, sulla base di criteri omogenei, di una serie di reati la cui commissione è appunto valutata, di per sé stessa e senza distinzione alcuna, come indice di oggettiva pericolosità. In considerazione delle finalità che le norme in esame intendono perseguire e del ruolo ricoperto dai soggetti interessati, non appare dunque illogico che il legislatore, ai fini dell’applicazione della decadenza e della sospensione obbligatorie dalla carica elettiva, abbia dato esclusivo rilievo all’identificazione delle fattispecie di reato in questione, senza avere riguardo a valutazioni, di stretta competenza del giudice del merito, che possano incidere sull’entità della pena.

D’altra parte, le disposizioni legislative denunciate sono state formulate nei termini indicati anche per evitare possibili censure di ingiustificata diversità di trattamento o situazioni di incertezza nell’applicazione della misura interdittiva o sospensiva, derivanti anche da soluzioni giurisprudenziali divergenti, che finirebbero per incrinare gravemente, in fatto, la pari capacità elettorale passiva dei cittadini proclamata dall’articolo 51 della Costituzione.

Non si tratta affatto di irrogare una sanzione graduabile in relazione alla diversa gravità dei reati, bensì di constatare che è venuto meno un requisito essenziale per continuare a ricoprire l’ufficio pubblico elettivo, nell’ambito di quel potere di fissazione dei “requisiti” di eleggibilità che l’articolo 51, primo comma, della Costituzione riserva appunto al legislatore.

In conformità a tali principî, la Corte costituzionale ha dichiarato che, da un lato, non sussiste la violazione dell’articolo 51 della Costituzione, poiché la condanna per uno dei reati in questione è configurabile come il venir meno di un requisito soggettivo per la permanenza nella carica elettiva, e che, dall’altro lato, non sussiste neppure la violazione del canone di ragionevolezza.

Giurisprudenza richiamata:

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sul principio secondo il quale, nel caso in cui sia rilevata la sopravvenuta abrogazione delle disposizioni denunciate, ma il loro contenuto precettivo sia stato integralmente riprodotto, la questione di legittimità costituzionale sollevata deve intendersi trasferita sulle nuove disposizioni, mediante le quali le norme denunciate continuano a vivere nell’ordinamento: Corte costituzionale, sentenza n. 376 del 2000; sentenza n. 454 del 1998
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sulle finalità perseguite e sugl’interessi tutelati dalle norme ex articolo 15 L. 55 del 1990: Corte costituzionale, sentenza n. 132 del 2001; Corte costituzionale, sentenza n. 141 del 1996; Corte costituzionale, sentenza n. 295 del 1994; Corte costituzionale, sentenza n. 118 del 1994; Corte costituzionale, sentenza n. 218 del 1993
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sulla giustificazione di una disciplina molto rigorosa ispirata alla ratio di prevenire e combattere gravi pericoli ed allo scopo di salvaguardare “interessi fondamentali dello Stato”: Corte costituzionale, sentenza n. 206 del 1999; Corte costituzionale, sentenza n. 184 del 1994
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sull’opportunità che disposizioni quali quelle della Legge 55 siano formulate senza tenere conto delle eventuali circostanze del reato, al fine di evitare possibili censure di ingiustificata diversità di trattamento o situazioni di incertezza derivanti anche da soluzioni giurisprudenziali divergenti, che finirebbero per incrinare gravemente, in fatto, la pari capacità elettorale passiva dei cittadini: Corte costituzionale, sentenza n. 364 del 1996; Corte costituzionale, sentenza n. 280 del 1992
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nelle ipotesi legislative di decadenza e di sospensione obbligatoria dalla carica elettiva, non si tratta affatto di irrogare una sanzione graduabile in relazione alla diversa gravità dei reati, bensì di constatare che è venuto meno un requisito essenziale per continuare a ricoprire l’ufficio pubblico elettivo: Corte costituzionale, sentenza n. 295 del 1994
* in materia di sospensione, che è una misura sicuramente cautelare, non è prospettabile un’esigenza di proporzionalità rispetto al reato commesso, ma piuttosto rispetto alla possibile lesione dell’interesse pubblico causata dalla permanenza dell’eletto nell’organo elettivo: Corte costituzionale, sentenza n. 206 del 1999

a cura di Giuseppe Conte