Corte costituzionale 26 giugno 2001, n. 206
http://www.cortecostituzionale.it/pron/rp_m/pr_01/pr_01_m/dec_h_01/01-0206.htm
Due giudizi di legittimità costituzionale in via principale promossi dalla Regione Veneto riuniti con ordinanza 15 maggio 2000, aventi ad oggetto: a) il Decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 112 (Conferimento di funzioni e compiti amministrativi dello Stato alle regioni e agli enti locali, in attuazione del Capo I della Legge 15 marzo 1997, n. 59); b) il Decreto legislativo 29 ottobre 1999, n. 443 (Disposizioni correttive ed integrative del decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 112, recante conferimento di funzioni e compiti amministrativi dello Stato alle regioni e agli enti locali).
La Regione Veneto ha sollevato due serie di questioni di legittimità costituzionale: il primo ricorso investe molte disposizioni del Decreto legislativo 112 del 1998, nonché lo stesso decreto nella sua interezza; il secondo ricorso investe varie disposizioni del Decreto legislativo 443 del 1999, nonché lo stesso decreto nella sua interezza.
La Regione ricorrente lamenta, in primo luogo, che il Decreto 112 contenga disposizioni che renderebbero “incerti” i conferimenti di funzioni, poiché stabiliscono che le funzioni conferite possono essere esercitate solo a partire dal momento che sarà indicato coi decreti del Presidente del Consiglio dei ministri previsti dall’articolo 7 della Legge 59 del 1997 e destinati ad individuare i beni e le risorse finanziarie, umane, strumentali ed organizzative da trasferire, a ripartirle fra le Regioni e fra Regioni ed enti locali e ad operare i conseguenti trasferimenti. La ricorrente impugna altresì l’intero Decreto, sostenendo che le disposizioni richiamate sono così “centrali” nell’economia del medesimo che la loro caduta implica quella dell’intero provvedimento legislativo. La Corte ha dichiarato la questione inammissibile, osservando che una pronuncia che eliminasse i condizionamenti temporali imposti ai conferimenti di funzioni renderebbe questi ultimi operativi già con l’entrata in vigore del Decreto legislativo, indipendentemente dai provvedimenti che individuano e trasferiscono le risorse (data l’evidente impossibilità di conseguire con una pronuncia di illegittimità costituzionale l’effetto di trasferire risorse alla Regione): risultato peraltro paradossale e chiaramente in contrasto con la Legge di delega, che postula, correttamente, la contemporaneità tra inizio dell’esercizio delle nuove funzioni e disponibilità delle risorse relative. Dall’altro lato la stessa Regione ricorrente, evidentemente consapevole della necessaria contestualità tra l’operatività dei conferimenti e il passaggio delle risorse, impugna il decreto nella sua interezza e sostiene che le disposizioni richiamate sarebbero così “centrali” nell’economia del provvedimento che la loro caduta implicherebbe quella dell’intero atto: con ciò postulando un risultato contrario a quello dell’anticipazione dell’effettività dei conferimenti, vale a dire la caduta delle stesse norme che tali conferimenti dispongono.
La Corte ha poi dichiarato infondata la questione di un lamentato uso scorretto della delega, di cui all’articolo 10 L. 59 del 1997, per l’adozione di disposizioni correttive ed integrative dei decreti legislativi di conferimento di funzioni: secondo la ricorrente, la delega in questione potrebbe esser utilizzata solo per fare fronte ad esigenze e fatti sopravvenuti e non per eludere il termine della delega principale, come invece si sarebbe fatto col Decreto impugnato, e pertanto è stato impugnato l’intero Decreto 443. La Corte ha osservato che l’esercizio di deleghe complesse può postulare un periodo di verifica, dopo la prima attuazione, e dunque la possibilità di apportare modifiche di dettaglio al corpo delle norme delegate, sulla base anche dell’esperienza o di rilievi ed esigenze avanzate dopo la loro emanazione, senza la necessità di fare ricorso a un nuovo procedimento legislativo parlamentare; nulla induce a far ritenere che siffatta potestà delegata possa essere esercitata solo per “fatti sopravvenuti”: ciò che conta, invece, è che s’intervenga solo in funzione di correzione o integrazione delle norme delegate già emanate e che si rispettino pienamente i medesimi principî e criteri direttivi già imposti per l’esercizio della delega “principale”.
Riguardo alla procedura di approvazione seguita, la Corte non ha condiviso la tesi secondo cui la procedura seguita sarebbe in contrasto con l’articolo 1, comma 4, lettera c), della Legge di delega poiché il Governo predispose lo schema originario del Decreto 112 senza previamente raggiungere l’intesa sull’individuazione dei compiti di rilievo nazionale da trattenere in capo allo Stato. Vero è, infatti, che sullo schema originariamente proposto dal Governo non era stata sollecitata e raggiunta l’intesa, ma ciò che conta è che tale intesa sia stata richiesta e raggiunta prima che si intraprendessero le ulteriori tappe del procedimento prescritto (pareri della Conferenza Stato, Regioni, città e autonomie locali e delle commissioni parlamentari, deliberazione definitiva del Governo), così che le Regioni abbiano avuto modo di esprimere le proprie posizioni e di pervenire o meno all’intesa, sulla base di un effettivo confronto con le posizioni del Governo, nella sede della Conferenza Stato-Regioni. In sede di formalizzazione dell’intesa, poi, non è necessario che l’assenso sia espresso dai presidenti di tutte le Regioni e Province autonome componenti della Conferenza Stato-Regioni: l’articolo 3, comma 2, del Decreto legislativo 281 del 1997, unica disposizione che regola il procedimento per le intese sancite nella Conferenza Stato-Regioni e che stabilisce che “le intese si perfezionano con l’espressione dell’assenso del Governo e dei presidenti delle Regioni e delle Province autonome di Trento e di Bolzano”, non può intendersi, conformemente alla sua ratio e a un’interpretazione congruente col principio di leale collaborazione, nel senso che l’assenza di alcune Regioni o al limite di una sola, pur regolarmente convocate, non accompagnata da alcuna espressione di dissenso, eventualmente manifestata anche fuori della sede della Conferenza, possa impedire il perfezionamento dell’intesa. Non può neanche accogliersi la tesi secondo cui sarebbe quanto meno necessario l’assenso della maggioranza assoluta delle Regioni i cui presidenti sono membri della Conferenza: la regola dell’assenso espresso dall’unanimità o almeno dalla maggioranza assoluta della componente regionale della Conferenza è stabilita espressamente dal Decreto legislativo 281 del 1997 per alcune ipotesi in cui la Conferenza esercita competenze decisorie come collegio deliberante, mentre mancano ulteriori regole formali che disciplinino il modus procedendi della Conferenza e pongano requisiti di numero legale e di maggioranza; quest’assenza è giustificabile proprio alla luce dei caratteri delle intese, in cui la Conferenza non opera come collegio deliberante, ma come sede di concertazione e di confronto, anzitutto politico, fra Governo e Regioni.
Per difformità fra il testo su cui si è raggiunta l’intesa e quello adottato con decreto, la Corte ha invece dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’articolo 3, comma 1, lettera a), D. lgs. 443 del 1999, ripristinando così, per questa parte, il testo originario del Decreto legislativo 112 del 1998. La disposizione censurata, che aveva inteso limitare le competenze rimaste in capo allo Stato inerenti allo stoccaggio di energia, è infatti difforme dall’intesa raggiunta e dunque perviene a una definizione dell’area dei compiti di rilievo nazionale, conservati in capo allo Stato, diversa da quella concordata. In particolare, secondo l’intesa le competenze statali avrebbero dovuto essere più ampie di quelle poi effettivamente rimaste allo Stato in base al Decreto 443, concernendo, oltre allo stoccaggio di metano in giacimento, altresì lo stoccaggio, in quantità superiori a date soglie, degli oli minerali e dei gas di petrolio liquefatti; queste ultime funzioni sono state invece escluse, nel testo definitivo, dalla competenza statale, risultando dunque più ampia la sfera delle funzioni conferite alle Regioni (ai sensi dell’art. 30, c. 1, D. lgs. 112 del 1998, secondo cui “sono delegate alle Regioni le funzioni amministrative in tema di energia … che non siano riservate allo Stato ai sensi dell’articolo 29 o che non siano attribuite agli enti locali ai sensi dell’articolo 31”). Poiché il Governo non ha motivato specificamente tale difformità dal testo dell’intesa, essa dà luogo a violazione dell’articolo 1, comma 4, lettera c), L. 59 del 1997 e dunque, indirettamente, a violazione dell’articolo 76 della Costituzione. Né si potrebbe obiettare che la modifica introdotta dal Governo è ampliativa, e non restrittiva, delle funzioni conferite alle Regioni rispetto al testo su cui si raggiunse l’intesa: la garanzia dell’intesa riguarda non solo l’ampiezza minima dei conferimenti convenuti, ma più in generale il riparto delle funzioni risultante dall’individuazione dei compiti di rilievo nazionale trattenuti in capo allo Stato, anche tenendo conto del fatto che, nella specie, le funzioni delegate alle Regioni possono comportare oneri finanziari.
Non è stata, invece, riconosciuta fondata la lamentata violazione degli articoli 76, 117 e 118 della Costituzione ad opera delle disposizioni del Decreto legislativo 112 del 1998 che attribuiscono direttamente funzioni e compiti agli enti locali nelle materie di cui all’articolo 117 della Costituzione. La Legge di delega, infatti, autorizzava il Governo ad impiegare tutti gli strumenti di decentramento funzionale contemplati dalla Costituzione, dal trasferimento e dalla delega a favore delle Regioni all’attribuzione diretta a favore degli enti locali. L’ulteriore principio sancito dall’articolo 4 della Legge di delega, secondo cui “nelle materie di cui all’articolo 117 della Costituzione, le Regioni, in conformità ai singoli ordinamenti regionali, conferiscono alle province, ai comuni e agli altri enti locali tutte le funzioni che non richiedono l’unitario esercizio a livello regionale”, mentre gli altri compiti e funzioni decentrati vengono conferiti a Regioni, comuni ed altri enti locali coi decreti legislativi delegati, ha per un verso una portata più ampia, concernendo tutte le funzioni comunque facenti capo alle Regioni nelle materie di loro competenza, comprese quelle già ad esse intestate, per altro verso ha una portata direttiva di massima, ma non può intendersi come preclusivo dell’impiego, da parte del legislatore delegato, dello strumento dell’attribuzione diretta di compiti agli enti locali ai sensi dell’articolo 118, comma 1, della Costituzione.
Infine, la Corte ha dichiarato l’illegittimità costituzionale, per violazione degli articoli 117 e 118 della Costituzione, dell’articolo 25, comma 2, lettera g), D. lgs. 112 del 1998, che demanda ad uno o più regolamenti la disciplina del procedimento di autorizzazione all’insediamento di attività produttive (cd. sportello unico), stabilendo che essi debbono prevedere, nel caso in cui il progetto sia in contrasto con lo strumento urbanistico, il ricorso alla conferenza di servizi, la cui determinazione, se vi è accordo, costituisce proposta di variante su cui si pronuncia definitivamente il consiglio comunale. Secondo le regole generali oggi risultanti dall’articolo 14quater L. 241 del 1990 (come sostituito dalla L. 340 del 2000), la conferenza di servizi può adottare una determinazione positiva sul progetto non conforme allo strumento urbanistico generale anche quando vi sia dissenso di taluna delle amministrazioni partecipanti e dunque anche, in particolare, della Regione: in tale ipotesi, la previsione secondo cui la proposta di variante può essere approvata definitivamente dal consiglio comunale senza l’ulteriore approvazione regionale equivale a consentire che lo strumento urbanistico sia modificato senza il consenso della Regione, con conseguente lesione della competenza regionale in materia urbanistica. Né può valere, a fare ritenere salvaguardata tale competenza, il richiamo al disposto dell’articolo 14, comma 3bis, L. 241 del 1990 (nel testo introdotto dall’art. 17 L. 127 del 1997), che attribuiva fra l’altro al Presidente della Regione, previa delibera del Consiglio regionale, il potere di disporre la sospensione della determinazione di conclusione positiva del procedimento adottata dall’amministrazione procedente a seguito della conferenza di servizi; a parte ogni altra considerazione, infatti, questa disposizione non è più in vigore a seguito della riformulazione degli articoli da 14 a 14quater della Legge 241 operata dalla Legge 340 del 2000: oggi l’articolo 14quater si limita a prevedere che, se una o più amministrazioni hanno espresso nell’ambito della conferenza il proprio dissenso sulla proposta dell’amministrazione procedente, quest’ultima assuma comunque la determinazione di conclusione del procedimento sulla base della maggioranza delle posizioni espresse e solo qualora il motivato dissenso sia espresso da un’amministrazione “preposta alla tutela ambientale, paesaggistico-territoriale, del patrimonio storico-artistico o alla tutela della salute” la decisione sia rimessa al Consiglio dei ministri (con l’intervento del Presidente della Regione quando il dissenso è espresso da una Regione) ove l’amministrazione dissenziente o quella procedente sia un’amministrazione statale, ovvero “ai competenti organi collegiali esecutivi degli enti territoriali” nelle altre ipotesi. La previsione in questione lede quindi la competenza regionale in materia urbanistica, espropriando la Regione del potere di concorrere a definire l’assetto urbanistico.
L’ultimo motivo di ricorso investe l’articolo 6 D. lgs. 443 del 1999, che aggiunge all’articolo 40, comma 1, del Decreto base, ove s’individuano le funzioni e i compiti conservati allo Stato in materia di fiere e mercati e di commercio, la lettera f), concernente “l’attività regolamentare in materia di somministrazione al pubblico di alimenti e bevande e di commercio dei pubblici esercizi, d’intesa con le regioni”. Seppure la materia non rientra nell’ambito delle competenze costituzionalmente proprie delle Regioni, nella specie occorre tener conto che la Legge 59, riprendendo una clausola generale già presente nel D. P. R. 616 del 1977, stabilisce in via generale che nelle materie diverse da quelle di competenza propria delle Regioni ma oggetto di conferimenti di funzioni amministrative alle stesse “spetta alle Regioni il potere di emanare norme attuative ai sensi dell’articolo 117, secondo comma, della Costituzione” e che “in ogni caso, la disciplina della organizzazione e dello svolgimento delle funzioni e dei compiti amministrativi conferiti … è disposta, secondo le rispettive competenze e nell’ambito della rispettiva potestà normativa, dalle Regioni e dagli enti locali”. La Corte ha quindi dichiarata illegittima la riserva allo Stato della “potestà regolamentare” (benché da esercitarsi “d’intesa con le Regioni”) in una materia compresa fra quelle in cui vi è conferimento di funzioni amministrative alle Regioni; non si tratterebbe, infatti, di una potestà destinata ad esplicarsi in ordine ad aspetti della materia rimasti alla competenza dello Stato, ma di una generale potestà normativa diretta ad integrare e specificare la disciplina della legislazione statale proprio nella materia oggetto di conferimento alle Regioni, dunque di una funzione normativa di attuazione coincidente con quella che, in base alla Legge di delega, è attribuita a queste ultime.
La Corte costituzionale ha dichiarato inammissibili o non fondate le altre questioni.
Giurisprudenza richiamata:
* sul principio di leale collaborazione e sulle intese: Corte costituzionale, sentenza n. 379 del 1992
* sulle funzioni “di interesse esclusivamente locale” che la legge della Repubblica può attribuire direttamente agli enti locali nelle materie di cui all’articolo 117 della Costituzione: Corte costituzionale, sentenza n. 408 del 1998
* sulla definizione delle materie “fiere e mercati” e “commercio”: Corte costituzionale, sentenza n. 205 del 2001
* sulla potestà regolamentare statale in materie trasferite: Corte costituzionale, sentenze n. 159 del 2001, n. 165 del 1989